giovedì 14 gennaio 2016

Animali in pittura - La Tentazione di Sant'Antonio di Salvador Dalì

Salvador Dalì, La Tentazione di Sant'Antonio, 1946, Museo reale delle belle arti, Bruxelles.
 
L'opera La Tentazione di Sant'Antonio venne dipinta da Dalì nel 1946, mentre si trovava negli Stati Uniti. In seguito alle esplosioni della bomba atomica nel 1945, le ricerche del pittore catalano si volsero verso le recenti scoperte scientifiche, in particolare nel campo della fisica nucleare, e verso una forma di misticismo paranoico-critico, come racconta egli stesso nel suo Manifesto mistico del 1951, traendo ispirazione prevalentemente dall’iconografia religiosa occidentale. Quest’opera fu presentata al concorso indetto da Albert Levin - e vinto poi da Max Ernst - per la realizzazione dell’unica scena a colori del suo film ispirato a Bel Ami di Maupassant.


    Max Ernst, Tentazione di S. Antonio, 1945.

Nel quadro di Dalì, nell’angolo in basso a sinistra, appare Sant’Antonio inginocchiato con in mano un crocefisso, formato da due legni uniti da una corda, con il quale tenta di esorcizzare le visioni demoniache che gli si presentano davanti: un cavallo bianco imbizzarrito, che sta per schiacciarlo, e quattro elefanti, tutti con lunghissime zampe, sottili e articolate come quelle dei ragni. Oltre alle zampe posteriori filiformi e all’espressione dal ghigno malefico e grottesco, questo cavallo rampante ha anche un’altra stranezza: i suoi zoccoli sono rovesciati, come se avessero subito una torsione, e grondano fanghiglia e liquami. I quattro elefanti dietro trasportano sui loro dorsi oggetti e immagini simboli delle tentazioni, lusinghe del piacere dei sensi e di ricchezze mondane, dalla prevalente connotazione erotica.
Il primo reca una piramide alla sommità della quale appare una donna nuda che si massaggia il corpo con provocatoria sensualità; il secondo trasporta un obelisco romano posto sopra una gualdrappa dorata, simbolo del potere (il richiamo è a una scultura del Bernini situata in piazza di Santa Maria sopra Minerva). Il terzo e il quarto trasportano una costruzione che ricorda una villa palladiana al cui interno si vedono i seni e il ventre di un corpo femminile. Gli ultimi tre hanno le zanne bianche, mentre il primo ne è privo. Un quinto elefante, in fondo e molto più lontano dagli altri, in parte nascosto dalle nuvole, trasporta sul dorso un’alta torre dal simbolismo fallico.

    Gian Lorenzo Bernini, Obelisco di Piazza della Minerva, Roma, 1667.

La particolarità affascinante di questi animali giganti è la deformazione allungata e sottilissima delle zampe. Il linguaggio surrealistico, fondato sulla visione onirica, permette di trasformare gli animali simbolo per eccellenza di pesantezza legata alla terra in creature che ispirano leggerezza, capaci di vivere in una dimensione di tramite tra la terra e il cielo, tra realtà e spiritualità. Questa figura di elefante era già presente in un’opera precedente, Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio. Anche qui le sue zampe lunghissime ed esili fanno ricordare un insetto che cammina sulla superficie dell’acqua.


Salvador Dalì, Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, 1944.

In alto, all’angolo di destra, all’estremo della diagonale che parte dalla figura del santo, spunta dalle nuvole la cima dell’Escorial, il “buen ritiro” di re Filippo II, il castello-monastero luogo di salvezza dalle tentazioni terrene, simbolo di ideale ascetico, di rinuncia al mondo terreno, segno indicante la vittoria conclusiva che metterà fine alla lotta interiore che si agita nell’animo del santo.
Il corpo nudo di quest’ultimo appare energico e muscoloso, pur nella sua magrezza, e nello stesso tempo fragile ed esposto, sovrastato com’è dalle colossali apparizioni animali. La sua postura è ferma e il braccio che solleva la croce è teso, senza tentennamenti o insicurezze. Egli oppone la sua fede alla furia che lo sta per travolgere. Dinanzi a lui una terra arida e spoglia e un teschio memento mori, spesso ricorrente nell’iconografia delle “tentazioni”.
Lo sfondo deserto aumenta l'atmosfera surreale e identifica subito il luogo come un mondo altro, diverso dalla realtà, un universo onirico e visionario, inconscio e delirante, in cui gli oggetti e i personaggi sono deformati nel senso del paradosso, mettendo cioè in evidenza gli aspetti inquietanti delle cose mediante contraddizione (ad esempio pachiderma-leggerezza). La precisione illusionistica, quasi iperrealistica, del disegno ha per scopo quello di razionalizzare il delirio e di aumentare lo sconcerto e lo smarrimento che queste assurde apparizioni intendono provocare (la ricreazione del delirio onirico in modo oggettivo e sistematico è definita dal pittore “metodo paranoico-critico”).
Chissà se Dalì era a conoscenza delle Tentazioni di Sant’Antonio del pittore napoletano Salvator Rosa (1615-1673), conservata presso la Pinacoteca Rambaldi di Coldirodi. In essa la tensione drammatica del soggetto, la posizione del santo e le creature inquietanti che popolano la scena ricordano la composizione del pittore catalano.

Salvator Rosa, Le tentazioni di sant’Antonio, ca. 1645, Museo di Villa Luca, Pinacoteca Rambaldi, Coldiroli - Sanremo.

Se si osservano le rappresentazioni di questo tema a partire dal XV secolo, ci si accorge che, con il passare del tempo, l’iconografia subisce dei mutamenti e che le tentazioni di natura sessuale, in un primo tempo illustrate accanto ad altri allettamenti e provocazioni demoniache, saranno via via prevalenti ed avranno sempre più una connotazione erotica.

                Théodore Chasseriau, La tentazione di Sant’Antonio (1850-55), collezione privata.



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