venerdì 28 ottobre 2016

L'uomo e la natura - CASPAR DAVID FRIEDRICH. LO SGUARDO OLTRE IL VISIBILE



Se le opere di altri artisti romantici, in particolare quelle di William Turner, sono pervase soprattutto dal sublime dinamico ‒ il sentimento suscitato dalle orrifiche benché affascinanti forze della natura ‒, semplificando si può affermare che le opere di Caspar David Friedrich sono per lo più caratterizzate da paesaggi sconfinati e silenziosi, che suscitano quel sentimento d’infinito che Kant definiva sublime matematico.
In “La croce sulla montagna” la composizione mostra un semplice crocifisso, piantato su un brullo picco montuoso, che si innalza tra gli abeti. Al di là di esso, salgono verso il cielo gli ultimi bagliori del sole al crepuscolo, in una luce screziata e irreale.


Caspar David Friedrich, La croce sulla montagna, 1808, Dresda, Gemaldegalerie - Public Domain via Wikipedia Commons

Il dipinto è in realtà una pala d’altare, acquistata dal conte Franz Von Thun-Hoenstein per la sua cappella nel Castello di Tetschen, in Boemia. L’opera suscitò aspre polemiche, in quanto il soggetto raffigurato si allontanava da ogni schema tradizionale di iconografia religiosa destinata a luoghi di culto: di certo, mai prima di allora un paesaggio era stato collocato su un altare. In questo caso non è tanto il soggetto rappresentato a conferire sacralità al dipinto; è lo stesso paesaggio che si ammanta di una profonda religiosità. Esso è avvolto da un intenso misticismo, trasmesso non solo dalla sobria solennità della croce, ma soprattutto dalla maestosità silenziosa della montagna.
Sembra qui riecheggiare la filosofia del contemporaneo Shelling o gli scritti dei fratelli Schlegel, per i quali la natura è manifestazione dell’Assoluto.
In quest’opera, come in quelle religiose tradizionali, si assiste a un’apparizione. Ma, in questo caso, non si tratta della manifestazione di divinità. Quella qui rappresentata è l’epifania della natura, che si rivela come immagine del divino, generando un sentimento estatico e rapito. Per questo il pittore elimina il primo piano ed ogni altro elemento di contorno, ponendo direttamente lo spettatore davanti alla sconfinata immensità del paesaggio e alla solennità della vetta e del crocifisso che si innalzano verso il cielo. La costruzione per piani intorno a un asse prospettico costringono l’occhio a muoversi dal punto più vicino a quello più lontano, seguendo una direzione che va in profondità; in questo caso, invece, il primo piano è occupato dalla sagoma piramidale della montagna, che nasconde tutto il resto e obbliga lo sguardo ad elevarsi verso il cielo, verso il punto focale costituito dal Cristo crocifisso. Questo sentimento di elevazione e di apertura dello spirito è amplificato dai fasci di luce che si irraggiano verso la sommità. Mancando la base della montagna, ed ogni altro punto di riferimento orizzontale (escludendo la cornice), lo spettatore si ritrova come sospeso tra cielo e terra, immerso nel silenzio irreale del crepuscolo. Egli non vede direttamente la sorgente della luce, simbolo di Dio, ma può solo contemplare il crocifisso nello sconfinato paesaggio, perché Dio si rivela all’uomo tramite la mediazione di Cristo e della natura.

Caspar David Friedrich, Morgen im Riesengebirge (1810-1811) – Public Domain via Wikipedia Commons

In Friedrich, il paesaggio si fa visione mistica, esperienza solitaria di eternità. La pittura diviene strumento di comunicazione con Dio e l’arte, preghiera e missione. L’artista non mette in scena un evento (la crocifissione), ma un sentimento, il senso religioso del sublime che si prova al cospetto dell’assoluto.
Questa unione del sacro con la natura è sicuramente uno dei segni più chiari del passaggio dal neoclassicismo, razionalista e illuminista, al nuovo clima romantico. Il sublime naturale assume gli attributi della divinità e l’esperienza estetica si fa esperienza religiosa. Il mondo, infatti, che è creazione di Dio, contiene in sé la misteriosa impronta del divino che trascende e sfida la ragione.

Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1808-10, Berlino, Alte Nationalgalerie - Public Domain cia Wikipedia Commons

La contemplazione dell’infinito è uno dei temi più cari all’arte dei romantici e di Friedrich in particolare. Quando l’opera “Monaco sulla spiaggia” (conosciuta anche come “Monaco in riva al mare”) fu esposta per la prima volta nel 1810 all’Accademia d’Arte di Berlino, insieme a un altro capolavoro di Friedrich, “L’Abbazia nel querceto”, il pubblico rimase non poco sconcertato. Quel paesaggio marino rompe tutti gli schemi convenzionali: i tre quarti della scena sono occupati dal cielo; lo spazio non è delimitato lateralmente da quinte scenografiche; tutta la composizione si svolge in grandi aree orizzontali; unico elemento verticale del dipinto è il piccolo monaco sulla spiaggia, decentrato e poco percepibile; manca qualsiasi tipo di oggetto e la scena è priva di ogni spunto di episodio narrativo. Nell’atmosfera ipnotica pervasa di luce livida e densa, le forme si dissolvono; cielo, mare e terra sono solo tre fasce astratte di colore che si compenetrano. Il colore dà all’immagine profondità spaziale e gli conferisce nello stesso tempo profondità psicologica, ed è proprio il colore, non lo sfondamento prospettico, a ingenerare la percezione di uno spazio infinito, perché indefinito.
L’opera non è una narrazione, ma la visione interiore dell’artista, che mette in scena un confronto solitario tra il monaco e la totalità cosmica che sembra sovrastarlo e al tempo stesso accoglierlo, come parte di un tutto. Ogni elemento, nella composizione, contribuisce ad affermare questa tragicità dell’essere umano, unica creatura in grado di provare il sublime sentimento della propria finitudine di fronte all’infinito: la linea dell’orizzonte è posta poco al di sopra del personaggio, per amplificare la sconfinata vastità della natura e l’insignificante piccolezza dell’uomo posto di fronte ad essa.
È un quadro che modifica profondamente il tradizionale rapporto tra l’uomo e la natura; mai nessun artista prima di Friedrich aveva rappresentato in modo così radicale la sproporzione e il disequilibrio tra la finitezza umana e l’immensità dell’universo.
Se il paesaggio rinascimentale, classico e illuminista si fondava sull’assunzione dell’uomo quale unità di misura del mondo e sulla prospettiva quale mezzo razionale per ordinare, misurare e dominare l’universo attraverso delle regole matematiche, in questo dipinto l’uomo non è altro che un infimo elemento del tutto, un “granello di sabbia” di un universo diventato incommensurabile, illimitato e indecifrabile dalla ragione.
Questo dipinto, inoltre, modifica radicalmente anche il rapporto tra quadro e osservatore. Se la tradizionale struttura prospettica includeva lo spettatore nella scena, soprattutto la sua facoltà razionale, conferendole un ruolo chiave nell’impianto della rappresentazione, qui la drastica assenza di prospettiva esclude l’osservatore da quel mondo sconfinato e nebbioso, accentuando la solitudine angosciosa del personaggio nella scena. Esclude in particolare la sua parte razionale, reclamando il coinvolgimento di quella emotiva e sentimentale. Come la maggior parte dei personaggi delle opere di Friedrich, il protagonista ci è presentato di schiena: questa posizione impedisce il muto dialogo personaggio-osservatore, obbligando piuttosto quest’ultimo a immedesimarsi con il primo e a condividerne il monologo, provando le stesse emozioni di malinconia e isolamento. Quello del sublime è sempre un sentimento contrastante, sospeso tra opposte emozioni: sgomento e fascino, nelle opere di Turner, angoscia e desiderio, in quelle di Friedrich.

Caspar David Friedrich, Two Men by the Sea, 1818 - Public Domain via Wikipedia Commons

Il personaggio del monaco è piccolo e reso con colori che quasi lo confondono con il resto del paesaggio, rendendolo parte di esso. L’Io tende a ricongiungersi con la totalità dell’essere, della quale fa parte e a cui anela il suo desiderio. Scrive l’allievo di Friedrich, Carl Gustav Carus:
“Chi contempla la meravigliosa armonia di un paesaggio reale, diviene consapevole della propria piccolezza e sente che ogni cosa è partecipe del Divino; si perde allora in quell’infinito, rinunciando in un certo senso alla propria esistenza individuale. Annullarsi in tal modo non è distruggersi: è potenziarsi. Quanto normalmente è possibile concepire soltanto attraverso lo spirito, si rivela allora quasi naturalmente all’occhio fisico, il quale coglie appieno l’unità dell’universo infinito.”
L’infinito come tragica vertigine dello sguardo, come patria predestinata e tuttavia inattingibile dello spirito, è qui ben espresso e testimoniato. Il sublime è uno smisurato desiderio di unirsi al tutto e nello stesso tempo uno smisurato senso di mancanza e di inappagamento, prevalendo il sentimento dell’incolmabile distanza tra la dimensione finita dell’essere umano e l’infinito che si intuisce come un’irraggiungibile condizione dell’essere.
Se l’essere umano è ridotto a un minuscolo punto insignificante, tuttavia è proprio la sua ridotta dimensione a fornire, come metro di paragone, la dismisura del paesaggio rappresentato, rendendo visibile la sua terrificante grandezza. La figura del monaco, benché presenza irrilevante, è l’unica in grado ad avere non solo la consapevolezza dei propri limiti, ma anche la capacità di oltrepassarli, di contemplare l’infinito e di anelare ad unirsi con esso.
Questo quadro, per la sua modernità e per affinità poetica, viene spesso accostato alla pittura di Mark Rothko, artista statunitense del novecento, esponente dell’espressionismo astratto.

Caspar David Friedrich, Abtei_im_Eichwald_-Public Domain via Wikipedia Commons

Il dipinto Abbazia nel querceto mette insieme diversi temi cari ai romantici: le rovine, il gotico, il cimitero, l’inverno, la morte. Pare che queste rovine gotiche siano state ispirate al pittore dai resti della abbazia cistercense di Eldena, situati presso la città di Greifswald, distrutta dagli svedesi durante la Guerra dei Trent’anni.
Si noti il contrasto tra l’austera rigidità dell’architettura gotica e la spettrale animazione delle grandi querce spoglie e contorte. Il loro aspetto scheletrico conferisce all’atmosfera un tono alquanto sinistro; gli alti tronchi scuri incombono minacciosi sui piccoli personaggi presenti nel dipinto e sullo stesso spettatore, incutendo un’emozione di sublime inquietudine. La coltre di neve che copre il suolo e la densa nebbia gelata che avvolge la radura amplificano il silenzio irreale che pervade la scena, facendo inoltre risaltare la piccola processione funebre dei monaci, che avanza lenta verso la croce che si erge oltre il portale. Le minuscole sagome nere delle tonache monacali si distinguono a malapena dalle tombe disseminate intorno all’abbazia (ricorrono qui i temi principali della scuola cimiteriale settecentesca, in particolare quella inglese).
Tutta l’atmosfera è pervasa da una luce livida e quasi fosforescente, che irradia il paesaggio di un chiarore innaturale, o meglio sovrannaturale, la cui fonte rimane ignota. Di sicuro non può essere emanazione della sottilissima falce di luna che vediamo nel cielo.

Nei paesaggi tradizionali, oltre al susseguirsi di vari piani, è raro che non compaiano elementi di continuità spaziale e prospettica come strade, sentieri, fiumi, coste, che organizzano uno spazio finito e ordinato, che la percezione riesce a dominare. Difficile trovare nei dipinti di Friedrich una strada, un sentiero, un fiume che indirizzi lo sguardo verso una direzione prospetticamente orientata. La composizione si struttura di solito per fasce orizzontali senza profondità: al primo piano succede immediatamente lo sfondo, che così appare talmente lontano da sembrare irraggiungibile e infinito. Di qui, l’estraniamento della visione, che si perde in lontananze che non riesce ad afferrare né tanto meno a dominare. Più comune la presenza, nelle opere di Friedrich, di finestre e aperture, che schiudono la visione di un mondo altro, infinito. Proprio come questa alta e solenne finestra gotica, verso, o meglio attraverso, la quale viene indirizzato lo sguardo dello spettatore.
Abbazia nel querceto dà proprio l’impressione di essere sulla soglia dell’aldilà. Di fronte a questa visione spettrale ed onirica si è colti da un sentimento di angoscia. Lo spettatore ha quasi la sensazione di attraversare anch’egli quel portale che separa la vita dalla morte.

Caspar David Friedrich, Der Träumer (Klosterruine Oybin), (1820-1840) - Public Domain via Wikipedia Commons

Il tema delle rovine fu molto caro allo spirito dei romantici. Esso non era infrequente anche nella pittura seicentesca e settecentesca, ma qui non è il gusto dello scenografico ad ispirare l’opera di Friedrich, bensì il senso della morte e del disfacimento. Così le querce, tradizionali simboli pagani di forza e di eroismo, non sono altro che scheletri rinsecchiti, vinti dall’azione corrosiva del tempo, alla quale soggiacciono sia la natura che la civiltà degli uomini.
Abbazia nel querceto sembra diviso in due: all’oscurità della parte inferiore si contrappone la luce della fredda alba invernale, che irradia tutta la metà superiore. Alcune interpretazioni fanno di quest’opera un’allegoria del passaggio dalla condizione materiale alla vita eterna, per cui la morte perderebbe quell’accezione puramente negativa per divenire simbolo di catarsi, come indicherebbe la luna crescente, da sempre simbolo di rigenerazione.
Di sicuro l’artista riesce a trasformare lo sguardo curioso dello spettatore che si posa sul quadro in uno sguardo introspettivo, in una visione interiore, in un viaggio che si interroga sul significato della vita e della morte, sul destino dell’anima e della storia, convertendo la visione di un’opera d’arte in un’intensa esperienza dello spirito.

Caspar D. Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, Hamburger Kunsthalle, Amburgo - Public Domain via Wikipedia Commons

I grandi temi romantici della natura e del sublime trovano fulgida espressione nel Viandante su un mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer). Il dipinto rappresenta un uomo di spalle, vestito in abiti borghesi che, in piedi sopra uno spuntone roccioso, contempla solitario lo straordinario spettacolo di un paesaggio alpino immerso nella nebbia. Il panorama ha qualcosa di così primordiale che sembra di ammirare la Terra subito dopo la Creazione e, benché aspro e inospitale, è talmente vasto da incutere un senso di vertigine e di sospensione. Esso riproduce un paesaggio montano della Boemia: sullo sfondo, a destra, è riconoscibile lo Zirkelstein, del quale si intravede la caratteristica forma cilindrica, mentre a sinistra si profila il Rosenberg.
Come la maggior parte dei personaggi di Friedrich, il protagonista è girato di spalle, con lo sguardo rivolto all’infinito, verso l’ignoto. In eroica solitudine, si erge la sua figura tragica di fronte all’incommensurabile potenza della natura. Abbandonato nella contemplazione della vastità del paesaggio, egli sembra acquisire la consapevolezza della sua nullità, dell’essere infinitesimamente piccolo al cospetto dell’assoluto.
La scena, di fortissimo impatto emotivo, si compone di un primo piano in controluce (l’uomo e le rocce), che si staglia contro uno sfondo montuoso, esteso quanto l’orizzonte. Il sublime, ossia il senso della natura possente e smisurata, trova in questo dipinto una delle sue massime espressioni. La contrapposizione semplice e netta delle luci, così come il dolce svaporarsi degli azzurri oltre le vette lontane, contribuisce a creare quel sentimento di grandiosità sospesa che meglio esprime la poetica del sublime, quel sentimento misto di sgomento e di piacere che è determinato dall’assolutamente grande e incommensurabile.
Il viaggiatore (tema romantico per eccellenza) osserva il mare di nuvole, da cui affiorano, come scogli, le cime montane. La sensazione che ci colpisce è quella dell’infinita grandezza della natura, al cui cospetto l’uomo altro non è che un temporaneo e precario viandante, che sosta sull’orlo dell’abisso. Un abisso che tuttavia non vediamo, occultato dalle nuvole che creano un mare soffice e misterioso.
Tra le figure dell’immaginario romantico, un ruolo di assoluta preminenza è ricoperto dall’icona del viandante (homo viator, come si può dedurre dalla presenza del bastone), che si fa simbolo dell’uomo e del suo destino. Un uomo di cui non cogliamo il volto, perché rappresentato di spalle.

Caspar David Friedrich, Donna al tramonto del sole, 1818 - Public Domain via Wikipedia Commons

Se Friedrich non ha inventato il motivo della figura vista da dietro, usato dall’arte antica e barocca per dirigere lo sguardo dello spettatore verso il fondo del quadro, egli l’ha sicuramente reinventato, conferendogli rilievo e forza incomparabili. Una figura di spalle (Rückenfigur) non dialoga con lo spettatore, ma lo invita a immedesimarsi in lui, a condividere il suo punto di vista e a compenetrarsi con il suo stato d’animo.
Scrive Friedrich: “Devo concedermi totalmente a ciò che mi circonda, unirmi alle mie nuvole e alle rocce, per riuscire ad essere quello che sono. L’arte mi serve per comunicare con la natura”. Il Romanticismo aveva riportato a dignità estetica la natura selvaggia, primordiale e incontaminata, che l’umanesimo e il classicismo avevano aborrito in quanto de-forme e irrazionale, in nome della razionalità della forma. E tuttavia esiste un’ambivalenza insanabile nel rapporto dell’uomo romantico con la natura: da un lato esaltata, ricercata per con-fondersi in essa e per scorgervi il volto di Dio; dall’altro, divenuta proiezione del proprio io individuale, oggetto in grado di esternare la propria soggettività. Per Friedrich, un “dipinto non deve porsi il fine di rappresentare la natura, ma solo di evocarla. Il compito dell’artista non consiste nella fedele rappresentazione del cielo, dell’acqua, delle rocce e degli alberi; sono la sua anima e la sua sensibilità a doversi rispecchiare nella natura. Riconoscere, penetrare, accogliere e riprodurre lo spirito della natura con tutto il cuore e con tutta l’anima è dunque il compito di un’opera d’arte”. E ancora: “Il pittore non deve dipingere solo ciò che vede davanti a sé, ma ciò che vede in sé. Se però in sé non vede nulla, tralasci pure di dipingere ciò che vede davanti a sé”. (C.D. Friedrich, Scritti sull’arte). Il “vedere” assolve in questo caso ad una funzione non rappresentativa e descrittiva, ma tutta spirituale e interiore, che trasfigura il dato naturale in parabola del sovrannaturale, il che fece affermare al pittore contemporaneo A. Ludwig Richter: “Friedrich ci tiene avvinti a un pensiero astratto, usa le forme naturali soltanto in senso allegorico, come segni e geroglifici che devono avere un particolare significato”.

Caspar David Friedrich, Auf dem Segler, (1818) - Public Domain via Wikipedia Commons

L’affermato ricongiungimento con la natura non è apertura all’altro da sé, accoglienza incondizionata dell’alterità, ma comporta l’elusione della realtà fenomenica e l’appello all’artista a far ricorso esclusivamente alla propria esperienza interiore: “Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito”, è infatti la raccomandazione del pittore tedesco. Ciò che viene rappresentato e descritto non è più, come nella pittura settecentesca, il luogo, bensì “la situazione, la relazione del soggetto con il sito, il suo modo d’essere nell’ambiente naturale, coscienza prospettica della collocazione dell’io nel mondo” (S. Pegoraro, Nel solitario cerchio). Il paesaggio non è che una forma incarnata delle vibrazioni dell’anima. La sorgente primordiale dell’arte è l’interiorità, che per esprimersi prende a modello la natura, sulla quale proietta i propri tumulti e sentimenti, il proprio desiderio di infinito. Nel mentre sembra sconfinare verso distanze mai raggiunte fino ad allora, lo sguardo in realtà si ripiega all’interno; l’arte diventa contemplazione della vita interiore, espressione di una tensione del soggetto verso una dimensione che va oltre il visibile.
Scrive Franco Rella: “Il romantico non imita la natura, ma la crea nella forma del paesaggio.” (F. Rella, L’estetica del Romanticismo). La natura, che i pittori del seicento e settecento cercavano di rappresentare in ogni infimo particolare secondo un approccio realistico che mirava ad esaltare ogni aspetto del darsi fenomenico delle cose, ora assurge a specchio su cui si proietta la brama di libertà dello spirito, divenendo di fatto un’espansione dell’io soggettivo. Ed è questa subordinazione dello slancio creativo all’interiorità del soggetto ciò che determina la filiazione dell’arte contemporanea dall’arte romantica.

Caspar David Friedrich, Frau am Fenster (1822) - Public Domain via Wikipedia Commons

Le figure viste di spalle di Friedrich sono state interpretate in modo discordante, sia come il simbolo dell’uomo immerso nell’immensità della natura, frammento infimo di un vasto universo, sia, al contrario, come il simbolo della sua solitudine in un mondo estraneo. Quella che sia la loro posizione, seduta o in piedi, in riposo o in movimento, le figure di spalle, situate sulla soglia di un vasto spazio di mare o di cielo che si estende davanti ad esse, si presentano nell’atteggiamento della contemplazione. Esse rappresentano la personificazione di quello sguardo che nello stesso tempo ci nascondono, che, mostrandosi ostinatamente di schiena,  ci impediscono di vedere. Tutto il loro potere evocativo discende proprio da qui, da questi corpi privi di volto che tuttavia incarnano l’atto del guardare. Ma qui non si realizza solo l’astrazione del volto. Anche i corpi sono privati di massa e di volume, divenendo delle silhouette. Il corpo dei personaggi, orientati verso distanze indeterminate, non è altro che questo “orientarsi”, questo protendersi, che si sostituisce allo sguardo che ci è precluso, incarnandone la tensione verso l’invisibile e l’indefinibile. Perché questi personaggi sono situati per lo più su un bordo, un limite: i loro corpi sono al confine tra il mondo del visibile e quello dell’invisibile, tra materiale e immateriale, tra naturale e soprannaturale.
Noi vediamo ciò che questi personaggi contemplano: il mare o il chiaro di luna o la città lontana all’orizzonte, le montagne avvolte nella nebbia o il sole al tramonto. Ma tali elementi sono rappresentati in modo così poco realistico e così tendente all’astrazione da avere l’impressione che i paesaggi tendano quasi ad annullarsi.

Caspar David Friedrich, Un uomo e una donna davanti alla luna, ca. 1824, Berlino, Nationalgalerie - Public Domain via Wikipedia Commons

Come in questo dipinto, Un uomo e una donna davanti alla luna, la natura crea una sorta di varco (l’apertura formata dai due alberi), attraverso il quale i personaggi realizzano il passaggio verso un mondo altro, che trascende quello visibile. Ed è proprio il darsi di spalle delle figure, che si proiettano verso il paesaggio, a creare questo effetto di transizione.

Il mondo ignoto, l’universo che trascende la realtà visibile, è anche la destinazione dei velieri il cui motivo accompagna spesso quello delle figure di spalle. Queste imbarcazioni, con la prua puntata all’orizzonte, rappresentano proprio ciò che ci è precluso: lo slancio dello sguardo contemplativo dei personaggi.

Caspar David Friedrich, Mondaufgang am Meer (1822) - Public Domain via Wikipedia Commons

Il mare di Friedrich ha ben poco della drammaticità dei tempestosi paesaggi marini dei suoi contemporanei; spesso non è altro che una superficie liscia e immobile. La calma che vi regna, e che si rispecchia sovente nello ieratismo di alcune figure di spalle che lo contemplano dalla costa, riflette la serenità del loro sguardo mistico, poiché l’oggetto della loro contemplazione non è affatto la natura, ma un paesaggio interiore. Gli occhi dell’immaginazione si dirigono al di là del visibile immediato per attingere la visione di una realtà invisibile, inattingibile alla percezione sensibile. Per questo i paesaggi di Friedrich sono quasi sempre avvolti dalla bruma, che scolorisce, vela, uniforma e attutisce la molteplicità e la diversità degli oggetti e delle forme. Le atmosfere, aurorali o crepuscolari, sfumate dalla foschia, così come quelle notturne rischiarate dalla luna, fiaccano il potere delle apparenze, indeboliscono le nostre sensazioni, riducono la loro dispersione per concentrare lo sguardo e favorire la visione.
Sia i paesaggi avvolti dalla nebbia e dalla bruma che le notti al chiaro di luna creano uno spazio e un tempo intermedi tra il giorno e la notte, tra la luce e l’ombra, tra il qui e l’altrove, sospesi tra il mondo sensibile e quello invisibile.

Caspar David Friedrich, Sunset, Public Domain via Wikipedia Commons

È in particolare nei paesaggi marini che Friedrich porta alle estreme conseguenze questo processo di riduzione della varietà e della molteplicità delle apparenze: il cielo e il mare, l’aria e l’acqua, si scambiano la loro materia formando un solo elemento indeterminato. Il mare inoltre si fonde con le imbarcazioni che lo solcano, o piuttosto le assimila a se stesso, alla sua sostanza, creando un paesaggio che sembra sul punto di svanire sotto i nostri occhi e annichilirsi nel proprio mistero.
Il mare delle opere di Friedrich può essere vibrante, ma mai tormentato o violento. La vita che esso racchiude è di un altro ordine, che trascende la mobilità della vita fisica e biologica dell’elemento liquido. Ridotto a un piano immobile, il mare sembra aver perduto ogni riferimento al suo modello naturale. Più che i tormenti della sua superficie, i movimenti delle sue onde, i riflessi delle sue acque, la sua immagine sembra piuttosto evocare i misteri della propria vita interiore, della propria ancestrale e oscura profondità.

Caspar David Friedrich, Kreidefelsen auf Rügen - Public Domain via Wikipedia Commons

Ne Le bianche scogliere di Rügen, due uomini e una donna osservano la calma distesa del mare dall’alto delle scogliere dell’isola tedesca di Rügen, nel Mar Baltico. Le candide falesie appuntite inquadrano dall’alto l’azzurro specchio marino, solcato da piccole vele in lontananza. I due alberi ai lati disegnano come una quinta teatrale. I rami frondosi in alto e i tronchi curvi formano una sorta di cerchio, lungo la cui circonferenza sono collocati i tre personaggi, visti come sempre di schiena.
A destra, un uomo osserva pensoso il baratro sottostante, poggiando pericolosamente i piedi su un cespuglio. Al centro un secondo uomo, posati il bastone e il cappello sull’erba, si sporge carponi oltre l’orlo del precipizio. A sinistra, infine, una giovane donna vestita di rosso siede tenendosi con una mano a un cespuglio e indicando con l’altra in direzione della bianca voragine. Le tre presenze umane hanno tutte una posizione più o meno precaria, in bilico sul precipizio, comunicando un senso di vertigine. Esse restano comunque marginali all’interno della composizione, centrata sulla grandiosità della visione marina.
Le bianche scogliere di Rügen” dipinto, come tutte le tele di Friedrich, in atelier a Dresda, fu concepito nel corso di uno dei viaggi in quell’isola, che il pittore intraprese nel 1818, insieme a uno dei suoi fratelli e alla giovane moglie, sposata da poco. La tela è appunto un souvenir di quella escursione. I toni chiari e armoniosi impregnano il paesaggio di una serenità gioiosa, che si bea delle varie tonalità di azzurro del mare, che trascolora nel rosato dell’orizzonte. Ma il realismo che ci sembra cogliere nella rappresentazione è solo apparente.
Se ammiriamo l’opera da vicino, è appunto la linea dell’orizzonte a catturare il nostro sguardo, a calamitarlo verso la bruma lontana che sfoca il confine tra cielo e mare e proietta la visione verso un indistinto impalpabile e inafferrabile. Ma se ci allontaniamo di qualche metro dal quadro, l’orizzonte scompare e lo sguardo viene inghiottito dalla vertigine creata dall’apertura tra le rocce bianche, che forma come un ampio squarcio nella tela. Uno squarcio che circonda uno spazio vuoto.
Quest’opera è stata fatta oggetto di molte interpretazioni, spesso forzate e fantasiose, incentrate per lo più sui personaggi, sulla simbologia legata alle loro posizioni nella scena o ai colori dell’abbigliamento. Il vero soggetto del dipinto, però, è da ricercare più che altro sulla sua composizione: protagonista della tela è la visione abissale sul paesaggio a strapiombo. I tre personaggi – l’uomo a destra in posizione contemplante, la donna seduta a sinistra e l’uomo inginocchiato che si sporge dal dirupo – sono le immagini viventi di questo sguardo che si tuffa nella profondità di un orizzonte che Friedrich rappresenta sempre brumoso e indistinto, perché inattingibile dall’uomo, sebbene il suo desiderio di infinito vi aneli con struggente passione. Il mare che si dà nell’apertura centrale sembra appartenere a un mondo altro, diverso, rispetto a quello cui appartengono gli alberi, le scogliere e i personaggi, descritti dal pittore in modo realistico e minuzioso, ben definito e attento ai particolari. Le tre figure rimangono al di qua della soglia, al margine del mistero, sebbene protesi sull’orlo del precipizio. Le loro posture rivelano la nostalgia delle lontananze irraggiungibili. La qualità materica delle dure rocce frastagliate dal profilo spigoloso, bianchissime e abbaglianti, contrasta profondamente con l’impalpabilità della distesa marina, dalle tinte delicate ed evanescenti. I segni che l’incessante erosione ha lasciato sulla pietra testimonia l’azione del tempo, che trasforma tutte le cose; di contro, il mare immobile sul fondo sembra appartenere a una dimensione atemporale, immutabile. In questa tela, l’altrove si dà pericolosamente nelle sembianze del vuoto, di un malinconico e gelido nulla.

Caspar David Friedrich, Das Eismeer, auch Die gescheiterte Hoffnung, 1823-24 - Public Domain via Wikipedia Commons

Nel dipinto Il mare di ghiaccio (conosciuto anche come “Il naufragio della speranza”) Friedrich tratta uno dei temi di maggior rilievo nella pittura dell’età romantica, il naufragio, simbolo della condizione dell’uomo in balia di del destino. Il quadro prende spunto da un fatto di cronaca, la fallita spedizione al Polo Nord delle navi Hecla e Gripper di Sir William Parry , e rappresenta un iceberg spezzato che ha inghiottito una nave, di cui si intravede solo la poppa. Sullo sfondo si scorgono, in una lontananza irraggiungibile, altri iceberg, affioranti dalla dura distesa di ghiaccio. I velieri, dipinti da Friedrich in molteplici quadri con la prua rivolta all’orizzonte, qui trovano la conclusione del loro viaggio.
Siamo molto lontani dalle scene di estrema drammaticità e dinamicità dei naufragi dipinti da Turner e da altri pittori dell’epoca. Ne “Il naufragio” (1805) Turner mostra una scena estremamente convulsa: i naufraghi sulle scialuppe di salvataggio cercano di scampare alla violenza delle onde; Friedrich invece dipinge una scena immobile, che mostra i resti della nave stretti nella morsa di enormi lastroni di ghiaccio, duri e taglienti, che sembrano scalini diroccati di un’antica cattedrale. È proprio la piramide di ghiaccio, frastagliata, inflessibile, dall’inquietante movimento a spirale che suggerisce l’inabissamento, ad essere il centro del quadro. Una composizione strutturalmente simile possiamo rinvenirla in un’altra rappresentazione di naufragio, “La zattera della Medusa” (1819) di Gericault, dipinto in cui il senso di monumentalità risulta analogo a quello del quadro di Friedrich. Ambedue hanno una struttura piramidale, ma se il quadro francese culmina con un braccio proteso verso l’alto, (il braccio di un uomo di colore la cui presenza ha indubbiamente un significato sociale) indicante l’orizzonte lontano, dove si scorge una speranza di salvezza, il vertice della piramide di Friedrich invece è costituito da una punta acuminata di ghiaccio, elemento cui converge l’intera composizione. Questa sembra innalzare un monumento alla forza della natura, incontaminata e primordiale, rispetto al quale i resti della nave costituiscono una presenza del tutto insignificante.
Si potrebbe tuttavia osservare che nel quadro la forza della natura si presenta con un aspetto particolare, che contiene in sé i segni di un autoannientamento. È indubbio il motivo dell’onnipotenza della natura, causa della catastrofe che ha annichilito l’uomo, scomparso dalla scena e inghiottito dal mare insieme a tutta la nave. Ma, come s’è detto, questa onnipotenza è rappresentata con dei tratti che fanno pensare ad una natura che ha perso la sua vitalità, una natura che a sua volta è prossima a disgregarsi, a crollare su stessa e ad essere inghiottita dal nulla. Il quadro, quindi, non è solo espressione dell’annientamento dell’uomo ma anche del suo mondo, ridotto ad un ammasso di blocchi e lastre, fissato in una gelida immobilità senza tempo.
Nei quadri di Turner e Gericault la natura ha il volto della violenza distruttiva, ma questa forza testimonia anche la sua vitalità e la sua energia. Nel dipinto del pittore tedesco, invece, abbiamo un mondo privo di vita, formato da lastre di ghiaccio che sembrano pietre tombali, opache e pesanti. Un paesaggio elementare, caratterizzato da uno spazio quasi immutabile e da un tempo immobile, che evoca, in modo palpabile, il senso della morte, della dissoluzione delle cose. L’immagine sembra “congelare” l’istante in cui la nave sta per scomparire ai nostri occhi. Con essa, sembra naufragare tutto il nostro mondo quotidiano, l’universo del visibile, e con esso l’estetica del paesaggio tradizionale che mirava agli occhi dell’uomo, ad appagarne il desiderio di bellezza e di piacere.
Il rifiuto e le critiche che questo dipinto ebbe nel corso della sua esposizione a Dresda nel 1824 sono il chiaro sintomo di un equivoco che è alla base dell’arte contemporanea. Nonostante il pittore avesse utilizzato, nel dipingere “Il naufragio” degli studi dal vero dei banchi di ghiaccio che si formavano sul fiume Elba, vicino Dresda, realizzati nell’inverno 1820-21, il quadro venne infatti giudicato privo di misura, inverosimile e irrealistico. Ma l’intento di Friedrich non era quello di riprodurre realisticamente un evento; la sua arte non era rivolta agli occhi dello spettatore, bensì alla sua anima e alla sua capacità di contemplare e di trascendere il mondo del visibile.
Proprio nel 1824 l’artista tedesco manifestò i primi sintomi di una grave malattia nervosa, legata probabilmente al suo perenne stato depressivo. Dopo Il mare di ghiaccio, la carriera del pittore cominciò la sua parabola discendente: la depressione minò non solo la sua capacità di dipingere, ma anche la sua vita familiare e sociale. Trascorse gli ultimi anni di vita nella più triste solitudine; morì povero e dimenticato il 7 maggio 1840.

Caspar David Friedrich, Kreuz an der Ostsee - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar David Friedrich, Mondaufgang über dem Meer, 1821 - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar David Friedrich, Picture in Remembrance of Johann Emanuel Bermer, 1817 c. - Pinterest

Caspar D. Friedrich, Die Lebensstufen (1835). Museum der Bildenden Künste, Leipzig - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar D. Friedrich, Gartenlaube, 1818 - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar D. Friedrich, Gebirgslandschaft mit Regenbogen, 1809 - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar D. Friedrich, Meeresufer im Mondschein, 1835, Kunsthalle, Hamburg - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar D. Friedrich, Rocky Reef on the Sea Shore, 1824 . Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar David Friedrich, Felsenlandschaft im Elbsandsteingebirge, 1822-23 - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar David Friedrich, Friedhofseingang, 1825 - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar David Friedrich, Graveyard under Snow (1826) - Public Domain via Wikipedia Commons

Caspar David Friedrich, Huttens_Grab - Public Domain via Wikipedia Commons


FONTI BIBLIOGRAFICHE

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Gabrielle Dufour-Kowalska, Caspar David Friedrich. Aux sources de l’imaginaire romantique, L’age d’homme, 1992.
C.D. Friedrich, Scritti sull’arte, Abscondita, 2008.
Pegoraro, Nel solitario cerchio. L’infinito e la pittura di C.D. Friedrich, Pendragon, Bologna 1994.
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