lunedì 20 marzo 2017

L'uomo e la natura - La natura mistica di Minor White


Minor White, Golden Gate Bridge, San Francisco, 1959.

“Una volta liberatosi dalla tirannide delle superfici e delle strutture, della sostanza e della forma, il fotografo potrà raggiungere la verità dei poeti”.

“Io fotografo le cose non come sono loro, ma come sono io”

Minor White è una figura chiave, oltre che protagonista leggendario, della fotografia del novecento. Laureatosi all’Università del Minnesota in letteratura inglese e botanica, proprio grazie a quest’ultima si avvicinò alla microfotografia, apprendendo così le basi della disciplina. A trent’anni iniziò la sua carriera di fotografo, poi interrotta per la guerra, dove servì nell'US Army Intelligence Corps. Sotto le armi scrisse tre cicli di poesie. Dopo la fine del conflitto si trasferì a New York per lavorare al MoMa e nello stesso periodo iniziò l’attività di insegnamento come assistente di Ansel Adams, per poi assumere la direzione del Dipartimento di fotografia al ritiro di quest’ultimo. La volontà di creare una didattica per la fotografia, affinché ad essa fosse riconosciuto lo stesso valore delle altre discipline artistiche, accompagnerà White per tutta la vita.

Il suo percorso è costellato da relazioni importanti con i protagonisti della fotografia del Novecento: Algfred Stieglitz, le cui ricerche su equivalenti e sequenze hanno un’influenza profonda sul suo lavoro, e Edward Weston, con il quale si confronterà fin quasi alla sua morte, nel 1958. Con Ansel Adams, i Newhall, Dorothea Lange e Barbara Morgan fonda nel 1952 la celebre rivista Aperture, che diviene il mezzo di diffusione del lavoro di numerosi autori e delle sue stesse ricerche, fotografiche e teoriche.
Muovendosi all'inizio nell'ambito del pittorialismo, comincia ben presto a meditare sulle immagini e sugli scritti di Stieglitz e del gruppo F.64, scoprendo che i contenuti del loro linguaggio visivo sono i più conformi alla propria visione del mondo e della fotografia, intesa come mezzo in grado di andare oltre l'apparenza del reale.
Scrive White nel 1934: “L'obiettivo imparziale - the candid camera - testimone senza cuore, sadicamente critico, è legittimamente considerato documento sociale; tuttavia il documento sociale mostra della società meno di quanto essa è, e delle persone solo una parte di quello che esse sono". White cerca invece di fotografare le cose non solo per quello che sono, ma anche per ciò che possono suggerire, per gli squarci che possono aprire sul mondo dell'invisibile, e per questo le sue immagini pullulano di allusioni simboliche e metaforiche. La fotografia diventa un modo per rendere visibile la propria continua ricerca di trascendenza spirituale.
Pur essendo un esteta esigente e dotato di grande perizia tecnica, il suo è un approccio quasi mistico alla fotografia: la sua lezione è quella di creare l'immagine guardando soprattutto dentro di sé, senza operare distinzioni tra fotografia e poesia. La fotografia è un incontro tra soggetto e oggetto, tra mezzo meccanico e possibilità simboliche, in cui viene rivelata l'aura sacrale e silenziosa che circonda le cose e la materia si trasforma in spirito. Le immagini testimoniano altro da sé, andando oltre l'oggetto raffigurato o l'evento documentato. Si può dire anzi che White ricerchi nella realtà le forme più congeniali ad esprimere il proprio mondo interiore. Egli organizza le sue fotografie in sequenze, come fossero versi di un testo poetico. Le chiama cinema of stills, cinema fatto da immagini fisse; e le accompagna con testi, ovviamente da lui stesso scritti. Queste sequenze non sono organizzate secondo uno schema narrativo, bensì metaforico, per cui tra un'immagine ed un'altra si crea uno scarto, uno iato in grado di aprire uno spiraglio su altri spazi e altri tempi. Esse non hanno lo scopo di comunicare, ma di mettere l'uomo di fronte a se stesso.
Nelle sue fotografie, White si confronta col mistero della natura, nel suo eterno e inesorabile ciclo che passa dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, come in questa fotografia in cui la carcassa di un cervo, che giace nell'ombra, è sulla stessa diagonale che sfocia nella luce piena di un albero secolare.

Minor White, Steamboat lake Oregon, 1941.

“Divenendo fotografo io ho solo cambiato medium. Il cuore fondamentale ed essenziale dei versi o della fotografia è la poesia.”

La ricerca di un significato che vada oltre la semplice osservazione superficiale è centrale nel lavoro di White, che, nell’articolo Equivalence: The Perennial Trend del 1963 (lo si può leggere qui: http://www.nicolafocci.com/wp-content/uploads/2013/10/Equivalence.pdf, nella traduzione di Nicola Focci), teorizza un triplice livello di ‘equivalenza’ della fotografia, concetto mutuato da Stieglitz e che per White costituisce “la spina dorsale e il nocciolo della fotografia in quanto mezzo di creazione dell'espressione”.
Secondo White, una fotografia può agire su tre livelli. Il primo livello è quello marcatamente visuale. Il fotografo riconosce nel soggetto qualcosa che gli ricorda un sentimento, e lo esprime visivamente, sfruttando gli attributi tipici del mezzo fotografico.
Al secondo livello, avviene la vera e propria Equivalenza: una sorta di “magia” in chi osserva questa fotografia, che coglie un senso di corrispondenza con quanto provato dal fotografo, e soprattutto con qualcosa che riconosce di se stesso. La fotografia diventa quindi una sorta di specchio.
Al terzo livello, la fotografia non è più presente davanti agli occhi dell’osservatore; e si trasforma ulteriormente, secondo le proprie inclinazioni e “distorsioni”, diventando altro ancora, ma sempre riportando a qualcosa di sé. Trattandosi di un processo intimo – dice White – è impossibile a prevedersi e descriversi.
La fotografia, per White, non è dunque “documentazione”, ma “metafora” visiva, entro la quale il fruitore può trovare una corrispondenza con il proprio vissuto personale. O, se vogliamo, è la documentazione di un paesaggio interiore del fotografo, che può essere riflesso sull’osservatore attraverso un meccanismo di identificazione intuitiva. Una sorta di allineamento tra immagine ed esperienza individuale.
Leggere una fotografia di White è insomma come calarsi in un abisso: non può essere semplicemente guardata, ma va sentita. Perché va al di là di se stessa.

Minor White, Two Barns and Shadow, 1955.

Guardando le fotografie di Minor White, lo spettatore si trova ad avere di fronte qualcosa che non sa definire precisamente. Ma ciò che gli viene richiesto non è di riconoscere l'oggetto, bensì di andare oltre quella che è l’osservazione e di condividere l’occhio del fotografo, il quale, con la propria creazione, non esprime solamente se stesso, ma entra in comunione con l’oggetto rappresentato, rendendo visibile allo spettatore la sua aura eterna e silenziosa.
Questa rivelazione di una presenza invisibile oltre la realtà delle cose, delle quali cerca di estrarre il senso profondo, fa della fotografia una vera e propria esperienza di vita, una sorta di preghiera muta, una meditazione interiore che tende a cogliere l'essenza ultima di se stessi e, attraverso questa, l'essenza delle cose, della natura, degli uomini.
Minor White, Moon and Wall Encrustations, Pultneyville, New York 1964.

Quando si guarda una fotografia di Minor White, ciò che importa non è il soggetto ritratto, ma il mondo di cui esso è simbolo o metafora. L'immagine diventa una porta stretta che immette in un universo nascosto dietro l'oggetto fotografato. Egli ha una concezione poetica della natura, che per lui costituisce l'arte suprema. I suoi modelli sono un ramo spezzato, una foglia imprigionata dal gelo, le venature di un tronco, le incrostazioni di un muro, un raggio di luce fugace o un'ombra furtiva: davanti ad essi può rimanere fermo delle ore, in attesa di essere irradiato dalla loro presenza. Le forme astratte della natura, le trame delle sue forme lo ispirano. Non si tratta, per lo spettatore che guarda quelle immagini, di riconoscere un oggetto, ma un'emozione, una sensazione, un istante.

"Quando ho guardato le cose per quello che sono, sono stato tanto sciocco da persistere nella mia follia e ho scoperto che ogni fotografia era uno specchio di me stesso".
Per White la fotografia è un mezzo di espressione e di crescita personale perché in grado di interpretare il conflitto tra le forze della vita interiore e quelle del mondo esteriore, in un tentativo di riconciliazione. L’astrattismo che adotta è conseguenza di un approccio quasi mistico all’arte: la fotografia non è documentazione ma metafora, espressione di un’esperienza interiore del fotografo, che può essere letta dallo spettatore attraverso un processo intuitivo.
Nella vita artistica di Minor White la parola scritta riveste un’importanza significativa, sia per la giovanile produzione poetica, sia perché l’influenza di autori come Novalis, Wordsworth, Holderlin, Coleridge, Mallarmé e Valéry, studiati ai tempi dell’università, accompagnò costantemente la sua produzione fotografica, comprendente infatti serie di immagini impostate come una sorta di poesia visiva.
Il rapporto tra scrittura e fotografia è imprescindibile, in quanto per White “un poeta può scrivere alcune parole sotto di essa [la fotografia] che cambieranno il modo in cui tu la vedi. In questo caso parole e immagine si coinvolgeranno l’un l’altra, si amplieranno l’un l’altra”.

The Three Thirds, 1957.

L’interesse di White per il testo in rapporto all’immagine si esplicita nelle didascalie. Spesso esse non aiutano alla comprensione delle sue immagini, perché riportano solo il luogo. Altre volte, invece, l’autore usa il titolo come veicolo di informazioni per interpretare l’immagine, aggiungendo così un ulteriore livello interpretativo alla fotografia.
In alcuni casi si tratta di un significato simbolico, come in The Three Thirds, in cui le tre finestre rappresentano le tre età della vita, in altri casi (così come accadeva in molte fotografie di Edward Weston) funge da mezzo per creare un gioco allusivo tra forme, come in Bullet Holes, Capitol Reef, Utah (1961): la didascalia rivela la vera natura dell’immagine, che ritrae dei fori causati da proiettili, mentre a una prima osservazione sembrerebbe trattarsi di un cielo stellato. E qui la didascalia non serve tanto ad etichettare l’immagine, quanto per aggiungere un livello; ed ecco che il soggetto diventa duplice: il danno causato da uno sparo, e una costellazione.

Bullet Holes, Capitol Reef, Utah, 1961.

Il potente simbolismo di Minor White lo si può apprezzare anche per confronto. Sia lui sia Ansel Adams, infatti, fotografano il Grand Teton; ma con risultati molto diversi. L'immagine prodotta da Adams, estendendo al massimo la gamma tonale, rende con gran nitidezza ogni elemento del luogo. L'insieme produce una impressione di solenne e maestosa grandezza. Se si guarda la fotografia realizzata da White, ci si accorge invece di essere di fronte a un percorso tutto interiore. Anziché documentare un luogo, questa fotografia rappresenta una rivelazione: “a un certo punto, in quel dato paesaggio, qualcosa si è rivelato al fotografo – a prescindere dal ‘dove'”.

Ansel Adams, The Tetons and the snake river, 1942 (da wikipedia.org)

E' la luce di Dio, vivida ed accecante, che si manifesta in tutto il suo splendore.
Se l’osservatore riconosce questo tipo di sensazione, ed essa porta in superficie qualcosa di sé (per esempio la ricerca del senso religioso, il “tendere verso un altrove”), ecco che si è avuta l’Equivalenza.


Minor White, Grand Tetons, 1959 (da moma.org).

La vita di Minor White fu complessa quasi quanto la sua fotografia, densa di conflitti, dovuti anche alla sua omosessualità, condizione vissuta con grande tormento interiore.
Fu uomo molto religioso, ma alla continua ricerca della religione: ora quella cattolica, ora il Buddismo Zen, ora il misticismo di Gurdjieff…
L’insegnamento fu estremamente importante nella vita di White, che condusse anche numerosi workshop, soprattutto nelle sue case-residence, sempre aperte agli studenti. La statura imponente, lo sguardo magnetico e l'aspetto ieratico lo dotavano di un grande carisma e le sue lezioni avevano un qualcosa di esoterico, di sacrale. Utilizzava, infatti, metodi didattici inusuali, tipo far compiere lunghe passeggiate nella natura, sedute di meditazione yoga e letture Zen. I suoi workshop erano però improntati alla disciplina ed alla severità, tanto che diversi studenti lasciavano le lezioni dopo pochi giorni. Proprio per questi motivi i suoi metodi didattici erano (e sono tutt’ora) controversi: secondo alcuni, questi workshop non facevano altro che plagiare le menti e “produrre” cloni del maestro.
Criticava il modo di realizzare fotografie inteso come “prendere immagini”, in cui il vedere un soggetto significa possesso e l'obiettivo ne afferma la proprietà. Per questo egli poeticamente ammonisce:

Non prendere immagini sii
Non dare sii
Non fare sii
Non conoscere sii immagine
Conta le inspirazioni conta le espirazioni
Conta il nulla
Sii respiro

Uno dei suoi testi preferiti è “Lo Zen e il tiro con l’arco”. Le sue raccomandazioni sono di questo tenore: “Avventuratevi nel paesaggio senza aspettative. Lasciate che sia il vostro soggetto a trovarvi. Quando si avvicina, percepirete una risonanza, un senso di identificazione con esso. Se, allontanandovi, la risonanza svanisce, oppure se cresce all’avvicinarvi, allora saprete di aver trovato il vostro soggetto. Sedete nei pressi di esso, e attendete che la vostra presenza sia accettata. Non cercate di fare una fotografia, ma lasciate che sia la vostra intuizione a decidere il momento in cui far scattare l’otturatore. Se dopo aver scattato percepirete una sensazione di compimento, fate inchino e lasciate andare il soggetto e la vostra connessione con esso”.
Secondo il suo insegnamento, il fotografo deve errare senza nessuno scopo determinato e, trovandosi di fronte a un albero, un'ombra, un essere vivente, attendere solo che, come una sorta di grazia, si compia l'unione con essi. E non importa se poi non si realizza alcuna fotografia, perché ciò che conta veramente è immergersi in profondità nello spirito delle cose.
Il fotografo deve avere lo sguardo puro di un bambino, o di un poeta: davanti ai suoi occhi innocenti, l'oggetto fotografato deve poter generare la sua propria immagine.

Minor White, Vicinity of Lostine River, Oregon, 1941.




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