giovedì 13 aprile 2017

Follia - Il "Saturno" di Goya: la follia che divora.

I fatti sanguinosi accaduti in questi giorni mi hanno fatto pensare a questo dipinto, forse uno dei più terribili della storia della pittura, il quale sembra condensare in un'immagine tutta la follia, la brutalità, l'orrore insiti nelle vicende umane. Si tratta del “Saturno” di Goya, una delle “pitture nere” che l'artista dipinse nella sua casa di campagna, lasciando una sorta di testamento intimo della propria disperazione e della propria cupa visione dell'umanità, dilaniata dalla follia, dalla violenza, dalle superstizioni. Un testamento che proietta l'arte occidentale direttamente nella contemporaneità, epoca caratterizzata dalla crisi del modello di razionalità illuminista e positivista. D'ora in poi il vero protagonista della produzione artistica sarà il caos, il disagio interiore dell'uomo, i suoi conflitti, la crisi della soggettività, che si scopre impotente e in balia di forze invisibili e difficilmente controllabili.

Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli, 1821-23, Museo del Prado.


Come il contemporaneo Füssli, anche il pittore spagnolo Francisco Goya esplora con la sua arte il mondo del sonno, del sogno e dell'incubo, dell'irrazionale e dell'oscuro, di quegli aspetti mostruosi e sotterranei che il trionfo della ragione illuminista aveva tentato di scacciare una volta per tutte dall'orizzonte umano.

Nel 1819, Goya, ormai più che settantenne, acquista una casa nei sobborghi di Madrid, sulle rive del Manzanarre, chiamata dai locali "Quinta del Sordo" ('quinta', in spagnolo, significa proprio casa di campagna), dove abiterà fino a quando, temendo ritorsioni da parte della restaurata monarchia spagnola, si trasferirà in Francia, a Bordeaux.
Sulle pareti di due grandi sale della parte vecchia della Quinta, una del pianterreno e quella corrispondente del piano superiore, entrambe di circa sei metri per nove, Goya dipingerà a olio l'impressionante ciclo delle "pinturas negras” (pitture nere): sette dipinti per piano, larghi quanto gli spazi tra le porte e le finestre (da una settantina di centimetri a quattro metri e mezzo), alte circa un metro e cinquanta. Quando qualche decennio più tardi la casa passerà nelle mani di un privato, questi si preoccuperà di staccare i dipinti dalle pareti e di trasportarli su tele, oggi conservate al Museo del Prado. Non si è salvata invece la Quinta, distrutta nel 1910.

Goya, Sabba di streghe, 1821-3, Museo del Prado

La maggior parte delle pitture raffigura scene di stregoneria e di esorcismi, di folli superstizioni e di delirio; è lo stesso mondo dell'irrazionale già liberato nei Capricci (serie di ottanta incisioni realizzate tra il 1792 e il 1799) e che ora, dopo le malattie del pittore e le crisi susseguenti, si riveste qui degli aspetti più allucinati e ossessivi.
Solitamente si individuano nella produzione di Goya due periodi: il primo, quello dedicato soprattutto alle opere su commissione, è quello degli arazzi e dei ritratti, caratterizzati da una luce chiara e da atmosfere distese; il secondo, quello della libertà espressiva, comprende una multiforme produzione di capolavori che va dai Capricci, alle Majas, ai Disastri della guerra, alle Pitture nere, alla Tauromachia, a Los Disparates. Questo secondo periodo, secondo l’opinione dei critici, più oscuro e tormentato, porta il segno di una grave malattia, forse la sifilide contratta in gioventù, che lo portò alla sordità completa, dopo un inizio acuto incominciato all’età di 46 anni.

Goya, I due vecchi, 1820-23, Madrid, Prado.

La pittura di questa seconda stagione, che i critici fanno iniziare intorno al 1792, è più personale e drammatica, dominata da incubi, orrori, atmosfere cupe e sinistre, dove le danze e le colorate feste popolari dei cartoni, realizzati anni addietro per gli arazzi reali, lasciano il posto a tenebrosi riti e sarabande stregonesche e a scene grottesche di follia. Oltre alla malattia, questo cambiamento trova anche spiegazione nei profondi sconvolgimenti che segnano la storia di quegli anni: la Rivoluzione del 1789, l'avvento dell'era napoleonica, l'occupazione della Spagna da parte dell'esercito francese, il movimento interno di resistenza, la restaurazione borbonica. Sconvolgimenti che si ripercuotono drammaticamente anche sulla vita dell'artista, che aveva vissuto lo splendore della corte reale ed era stato apprezzato e circondato da grandi onori e riconoscimenti e che ora sperimenta la solitudine e la caduta in disgrazia.

Goya, Atropos, 1821-23, Museo del Prado.

L'esito finale di questa fase “nera” della produzione di Goya sono le pitture a parete della Quinta del Sordo, che segnano anche il momento di maggior chiusura dell'artista in se stesso. Queste figure, il cui contorno è a volte appena accennato, come se fossero lì per lì per svanire nel nulla, sono come frammenti di incubi, echi evanescenti di insensati sogni notturni, che all'alba si dissolvono lasciandoci un profondo senso di inquietudine.
Tra le figure mostruose e tragiche che ricoprono le pareti della Quinta, spicca quella che la maggior parte dei critici ha identificato con Saturno, il dio Crono della mitologia greca, mentre divora uno dei propri figli.
Si tratta di uno dei dipinti più sconcertanti della serie, rispetto al quale è anche difficile trovare un collegamento con gli altri. Per questo motivo molti commentatori hanno puntato sul binomio astrologico Saturno-Melanconia, per l'evidente umor nero che pervade le opere.
Oltre a quella di tipo astrologico, numerose sono state le interpretazioni di questo dipinto, tendenti a identificare nella figura di Saturno un personaggio storico, come Napoleone, o un'allegoria, ad esempio quella del Tempo con l'inevitabile disfacimento apportato dal suo scorrere inesorabile.
Un importante elemento di cui tener conto, però, è che le pitture della Quinta non erano destinate ad alcun pubblico. Esse furono eseguite nell'intimità, come decorazioni interne di un ambiente strettamente privato. Nella loro concezione, pertanto, questi dipinti sfuggono al meccanismo tradizionale della destinazione dell'opera d'arte. Se un artista, solitamente, struttura la propria opera come un messaggio rivolto a un destinatario, o quanto meno tiene in conto questa possibilità, le pitture nere di Goya, al momento della loro realizzazione, non prevedevano lo sguardo esterno di alcuno spettatore oltre quello dell'artista medesimo.

Goya, Pellegrinaggio a San Isidro, 1820-23, Madrid, Prado.

Goya traspone nel ciclo le emozioni della sua vita ormai al tramonto, senza alcuna intenzione educativa o illustrativa; la sua è una sorta di confessione intima, che traspone nei dipinti le proprie ossessioni e i propri incubi, la propria visione cupa della storia e della natura umana. E in questa ricerca di sincerità interiore, Goya riesce a rompere con la tradizione e con i canoni che dominano l'arte della sua epoca, sia l'eredità rococò che il neoclassicismo di cui si era ammantata la Rivoluzione francese. Goya fu, cioè, il vero rivoluzionario in pittura, il vero interprete delle tensioni, delle contraddizioni del suo mondo. Le Pitture Nere sono la solitaria espressione di questo impulso rinnovatore che egli assorbì dal suo ambiente e trasformò in una visione di grande potenza.
Il crollo delle illusioni alimentate dallo slancio rivoluzionario, che l'ambizione napoleonica aveva schiacciato e la brutalità della guerra distrutto, sfocia nelle Pitture Nere generando repulsione ed orrore, in miscela conturbante. Nel suo Saturno, Goya condensa tutto il “negativo” che la vita gli ha messo dinnanzi, la impotenza della vittima, la voracità senza limiti del potere, la follia del male e della violenza rappresentata come un mostro dagli occhi spiritati e dalla bocca spalancata, simile a un antro scuro nel quale ci sentiamo risucchiati.
Di fronte al Saturno, si è avvolti e divorati da una oscena furia distruttiva. Confrontando il Saturno di Goya con quello di Rubens, a Madrid, che certo Goya conobbe ed ebbe presente, si misura
l’enorme distanza che separa il Barocco dalla Modernità. Se il dipinto di Rubens è un'elegante illustrazione di un mito, pervasa di intima armonia estetica, il Saturno di Goya irrompe con una distruttività allucinata e una dissonanza senza pari.

Peter Paul Rubens - “Saturno che divora il figlio”, 1636-1638, Museo del Prado, Madrid

Nelle pitture nere, molti critici identificano l'artista illuminista che denuncia l'orrore dei mostri generati dal “sonno della ragione”, come già aveva fatto nel celebre Capriccio inciso nel 1797. Scrive però Renato Barilli in “L'alba del contemporaneo. L'arte europea da Füssli a Delacroix”:
“... Poiché il 'nero' è l' 'altra' faccia, complementare, dialettica, del chiarore giovanile, risulta alquanto inutile chiedersi da che parte stia l'artista: evidentemente, egli non è totalmente né dalla parte di quella innocenza, di quell'eros disimpegnato che traspaiono dalle scenette giovanili dei cartoni, né dalla parte degli orrori, della superstizione o della guerra, dipinti in seguito. […] Ciò vale a respingere la concezione di un Goya 'illuminista' che, se dipinge o incide i mostri partoriti dal 'sonno della ragione', lo fa per denunciarli. Al contrario, egli intuisce che appunto tra la ragione a occhi parti e quella profondità del sogno o dell'incubo c'è una complicità, una continuità, se non altro dialettica, che bisogna concedere a entrambe; anzi, tanto più alla ragione oscura e notturna che è in noi, quanto più fino a quel momento ci si era ostinati a 'rimuoverla'.”
A questo link, il video con tutta la serie delle pitture nere:


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