lunedì 8 maggio 2017

La fotografia entra nei manicomi ... e i matti finalmente ne escono fuori

Fotografia tratta dal libro “MORIRE DI CLASSE. LA CONDIZIONE MANICOMIALE FOTOGRAFATA DA CARLA CERATI E GIANNI BERENGO GARDIN”, a cura di F. e F. Basaglia, Einaudi 1969. Gianni Berengo Gardin, Firenze, Istituto Psichiatrico, 1968.

"Morire di classe"
Nate a distanza di pochi decenni l’una dall’altra, tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, psichiatria e fotografia tornano più volte, in occasione di significativi cambiamenti socioculturali, a incontrarsi e a incrociare i propri destini. Era successo nella seconda metà dell'Ottocento, quando la psichiatria positivista aveva trovato nel documento fotografico un mezzo realistico per individuare, osservare, catalogare e così dominare la malattia mentale. La tecnica fotografica, in quanto fedele riproduzione della realtà, era considerata una garanzia di obiettività e di scientificità.
Tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta del secolo scorso le due culture, ambedue impegnate a ridefinire i propri assetti e statuti, si incontrano ancora una volta, in un contesto di mutamento epocale. Da una parte la psichiatria che stava mettendo in discussione la tradizionale impostazione positivista delle sue teorie e dei suoi luoghi di cura (gli istituti psichiatrici), dall'altra un gruppo di fotografi fortemente impegnati nel sociale, che decide di imbracciare la macchina fotografica e di documentare con sguardo diverso la pratica e l'istituzione della cura mentale.

Questo incontro contribuirà a produrre un cambiamento rivoluzionario, che culminerà nella chiusura degli ospedali psichiatrici (Legge 180 del 1978). Ma nel frattempo avrà realizzato qualcosa di più capillare, avrà cioè contribuito a cambiare l'immaginario comune intorno alla follia e al ruolo dell'istituzione imposto dalla psichiatria tradizionale.

 Iconographie photographique de La Salpêtrière 1877 and 1878.

L'uso positivista della fotografia in campo psichiatrico era un uso ancillare, subordinato: i medici se ne servivano come efficiente e veloce supporto classificatorio, diagnostico e didattico. I corpi delle persone fotografate erano in quel modo ridotti a puro oggetto documentario, attraverso cui costruire dei modelli diagnostici di riferimento. Le fotografie che ritraevano i luoghi e i metodi di cura (bagni di vapore, trattamenti idrici, elettroschock) o gli strumenti di contenimento, cercavano di essere totalmente neutre e asettiche, costruendo così un immaginario che legittimava l'istituzione manicomiale quale unica risorsa possibile per opporre l'ordine al disordine della follia.

Iconographie photographique de La Salpêtrière 1877 and 1878.

Questo uso della fotografia in psichiatria non cambia sostanzialmente fino alla metà degli anni Sessanta, quando un gruppo di fotografi politicamente impegnati decide di entrare nei manicomi e di guardare persone e luoghi con uno sguardo diverso, al fine di mettere in discussione lo stereotipo sulla follia diffuso nella società. Questo sguardo, lo si vede nelle foto, è radicalmente diverso da quello tradizionale, perché non ha il fine né di classificare né di mostrare l'utilità e l'efficienza delle istituzioni psichiatriche e dei suoi metodi, ma l'obiettivo delle macchine si posa sulle persone cercando di recuperare la loro umanità violata, mostrando l'orrore di una condizione fatta di sopruso, violenza e alienazione.
Si tratta di una svolta comunicativa: il modo di produrre immagini sulla follia subisce un cambiamento drastico e queste immagini, a loro volta, contribuiranno a cambiare teorie e pratiche della psichiatria.
In questo processo che dura circa dieci anni è necessario, tuttavia, distinguere due momenti fondamentali: un primo momento di denuncia, durante il quale fotografi come Luciano D’Alessandro, Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin entrano negli ospedali psichiatrici per documentarne l’orrore; e un secondo momento quando, diffusa fra i movimenti politici di quegli anni l’esperienza di Franco Basaglia a Trieste, fotografi come Gian Butturini, Paola Mattioli, Uliano Lucas, Neva Gasparo, entrano negli ospedali psichiatrici come loro seppur temporanei abitanti, per documentare il momento della loro apertura.

Luciano D'Alessandro, Ospedale psichiatrico “Materdomini” Nocera Inferiore (SA), Italia, 1965.

Luciano D'Alessandro fu il primo a entrare in un manicomio con obiettivo ben diverso da quello catalogatorio, per documentare la situazione degli internati dell’ospedale psichiatrico di Nocera Inferiore.
Nel 1968, poco dopo la pubblicazione de L'istituzione negata, Carla Cerati si era messa in contatto con Franco Basaglia (che aveva già cominciato la sua battaglia per la chiusura dei manicomi), il quale aveva intenzione di realizzare un libro fotografico sulle istituzioni repressive. Fu proprio lo psichiatra ad aiutare Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin ad entrare, con le loro macchine fotografiche, nel manicomio di Gorizia e in quelli di Parma e Firenze. Il reportage non fu privo di difficoltà per la resistenza dei direttori e del personale di alcuni istituti a lasciarli riprendere fotografie dei luoghi e dei pazienti. L'anno successivo, tuttavia, le loro immagini furono pubblicate da Einaudi nel volume Morire di classe, curato da Franco Basaglia e da sua moglie Franca Ongaro. E' il primo libro a livello mondiale a denunciare la spaventosa ingiustizia della realtà manicomiale. Un testo che apriva le porte su uomini e donne reclusi e dimenticati da tutti, ridotti a fantasmi in lager dove regnavano sofferenza e sopraffazione.

Morire di classe. Carla Cerati - Ospedale psichiatrico. Parma, 1968.

Dieci anni più tardi il Parlamento vara la legge 180, che decreta la chiusura dei manicomi e il decentramento sul territorio dell'assistenza psichiatrica.
Fin da subito, Morire di Classe diventa un manifesto per Basaglia e per i medici che rifiutano la psichiatria istituzionale: in questo libro fotografico, non solo le immagini mostrano in modo nuovo volti e contesti, ma contribuiscono anche a mettere in discussione il discorso scientifico corrente, la sua incapacità di rispondere al disagio della follia. Le fotografie inquadrano l’esperienza umana della sofferenza, fuori dagli stereotipi correnti, riuscendo a porsi di fronte ai malati di mente con uno sguardo mai usato prima: non quello che oggettiva i segni di una patologia annullando la persona portatrice dei sintomi, ma uno sguardo che cerca proprio la persona, non i suoi segni esteriori ma la sua interiorità.

Fotografia tratta dal libro “MORIRE DI CLASSE. LA CONDIZIONE MANICOMIALE FOTOGRAFATA DA CARLA CERATI E GIANNI BERENGO GARDIN”


I matti sono fuori
Alla fine degli anni Sessanta, la fotografia entra negli istituti psichiatrici italiani e, da strumento conoscitivo e celebrativo della psichiatria positivista, l'immagine fotografica diviene strumento di critica e di denuncia del fallimento di quella scienza. E tuttavia, il ruolo della fotografia in quel frangente non fu solo negativo, ma contribuì a creare un immaginario nuovo e a trasmetterlo a un pubblico che era chiamato ad accogliere gli internati liberati dalla legge 180.
Superata la fase di denuncia, i fotografi dell’“apertura” vanno alla ricerca delle modalità visive per mostrare la definitiva rottura fra la vecchia scienza medica, l’istituzione e il disturbo mentale.
Una comunità di comunicatori, come Gian Butturini, Paola Mattioli, Uliano Lucas, Neva Gasparo realizzano dei reportage che narrano per immagini questa svolta.
Uliano Lucas, protagonista del fotogiornalismo italiano e grande interprete dei profondi cambiamenti sociali e politici del secondo dopoguerra, documenta a fondo le trasformazioni del mondo della psichiatria, raccontando il “dopo”, le conseguenze dell’applicazione della legge Basaglia che proprio nel 1978 apre le porte dei manicomi e propone nuovi modelli di cura, in un radicale ribaltamento della concezione del disagio psichico. Dallo spazio alienante e disumano dell’ospedale, Lucas segue gli ex degenti dei manicomi nella loro vita al di fuori delle strutture, nei luoghi protetti ma socializzanti del bar e della piazza, raccontando la normalità di vita conseguita, negli ultimi anni, grazie alle molteplici iniziative ed esperienze delle case-alloggio, dei corsi di formazione professionale e delle cooperative solidali. “Da oltre trent’anni, a Gaiato, a Trieste, a Parma, in Puglia, a Genova, a Lecco come a Grosseto, Lucas racconta questa lenta conquista di una libertà e “normalità” di vita da parte degli utenti dei centri di salute mentale, le difficoltà, le forme dell’assistenza, le sofferenze, ma anche, spesso e soprattutto, la gioiosa affermazione della propria personalità.” (Tatiana Agliani)
Nel 1987 Uliano Lucas realizza una serie di ritratti (Al bar "Il posto delle fragole"), scattati al tavolino di un bar nell'ex ospedale psichiatrico di Trieste a pazienti, medici, operatori e visitatori. Di questi ritratti, fa parte quello della ragazza che vedete in questa foto. Vi riporto le sue parole in proposito:

“Era la provocazione di dimostrare l’assenza di un limite fra normalità e diversità e cogliere nei volti semplicemente la complessità dell’uomo.
Cinquantacinque scatti di cinquantacinque individui che si mostrarono come si immaginavano, come si sentivano, come volevano essere visti. Fra di essi quello di una donna che è diventata sintesi nella sintesi, credo, di un mio modo di vedere l’uomo e l’esistenza.
Nella posa che offre all’obiettivo l’esuberanza della propria personalità, ritrovo una modalità di rappresentazione che attraversa alcune delle mie foto più intense: l’uomo a confronto con il proprio mondo interiore, in un momento di grazia e di abbandono. Che è poi il diritto alla vita, alla pienezza dell’essere, all’immaginazione e alla conoscenza che ho sempre cercato di affermare con le mie fotografie, anche e soprattutto quando ne denunciavo l’assenza, il tradimento, la negazione.”
Uliano Lucas, da Giovanna Calvenzi, Melina Mulas, Laura Serani (a cura di), Clear Light, Roma, Peliti Associati, 2009.

Uliano Lucas, Al bar “Il posto delle fragole” nell’ex ospedale psichiatrico, Collina di San Giovanni – Trieste, marzo 1988.

La legge Basaglia, purtroppo, non sempre ha trovato compiuta applicazione e molte sono le differenze da regione a regione, ma ha significato il dovuto passaggio da un sistema che sorveglia e punisce alla ricerca di una società inclusiva che accoglie i più fragili e vive la diversità come ricchezza.
L'età moderna era iniziata con il “grande internamento” e per secoli la follia era stata celata, reclusa, espulsa dalla società e dalla vita stessa, perché considerata una qualcosa di aberrante, di totalmente estraneo, l'irrazionale che l'istituzione psichiatrica aveva il compito di razionalizzare. Il Novecento, anche grazie alla scoperta dell'inconscio da parte di Freud, alla fenomenologia, alle riflessioni dell'antipsichiatria, alle avanguardie artistiche, riconosce la non estraneità della follia e la riporta nella dimensione umana e nella società.
Chiudiamo doverosamente con le parole dello psichiatra che si batté tutta la vita per questo scopo:
«Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. E' una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.»
(Basaglia, in Conferenze brasiliane, 1979)


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