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domenica 27 agosto 2017

LO SPECCHIO RIVELATORE - LA DILATAZIONE DELLO SPAZIO PITTORICO IN TRE CAPOLAVORI DELL’ARTE



L’arte ha spesso cercato di invitare lo spettatore, nelle modalità più varie, a indagare lo spazio oltre il limite stabilito dalla cornice, fino a risucchiarlo letteralmente nella scena. A questo fine, molte volte si è servita di un elemento che ha posizionato strategicamente nell’ambiente raffigurato sulla tela: uno specchio. Questo oggetto è in grado di espandere la scena rappresentata, di dilatare lo spazio pittorico, di includere in esso anche il “fuori campo”, di mostrare ciò che è visibile e ciò che non è visibile, di consentire visioni del reale nel reale, come degli spazi rubati, dei riflessi, delle duplicazioni.


VAN EYCK – RITRATTO DEI CONIUGI ARNOLFINI

Lo specchio come mezzo per ampliare lo spazio pittorico compare probabilmente per la prima volta nella celebre opera del pittore fiammingo Jan van Eyck Ritratto dei coniugi Arnolfini del 1434. Un’opera che ha stimolato numerosissimi studi e riflessioni e che tuttavia lascia ancora molti interrogativi irrisolti, anche a causa della ricca simbologia presente nell’opera.

Il dipinto raffigura una coppia borghese, il mercante di Lucca Giovanni Arnolfini con la moglie Giovanna Cenami, anche lei lucchese, che fecero parte del gruppo di mercanti e banchieri italiani residenti a Bruges, alla corte del duca di Borgogna Filippo il Buono. Secondo alcune interpretazioni, la scena rappresenta il matrimonio degli sposi e un’allegoria della maternità (cui sembrano alludere vari oggetti presenti nella stanza), secondo altre la celebrazione del giuramento della coppia. Tale cerimonia avveniva tramite una promessa scambiata col congiungimento delle mani davanti a dei testimoni, e pertanto aveva valore giuridico

Van Eyck - Ritratto dei coniugi Arnolfini -[Public domain] via Wikimedia Commons

Variegata è la simbologia rinvenibile negli oggetti raffigurati e in alcune caratteristiche dei personaggi. Sono presenti simboli legati alla sacralità del matrimonio (ad esempio il cane è simbolo di fedeltà coniugale, la verga di verginità o di fertilità, il lampadario con una sola candela accesa richiama la fiamma dell’amore), simboli correlati ai ruoli dei componenti della coppia (le pantofole della moglie sono vicine al letto, mentre quelle del marito sono più vicine alla porta e quindi al mondo esterno; la donna china il capo in segno di sottomissione), oppure simboli che testimoniano la loro ricchezza e posizione sociale ed economica (le vesti ricercate e preziose, il tappeto pregiato, i mobili costosi), Tra tutti questi oggetti raffigurati spicca lo specchio convesso appeso alla parete dietro i due coniugi e che nell’immagine si frappone proprio tra di essi, al di sopra delle mani congiunte. Esso aggiunge notevole complessità all’opera; nel riflesso compaiono elementi in più ed elementi in meno di quanti ne vediamo nel dipinto. Presso la porta infatti, oltre i due coniugi riflessi di spalle, si vedono dei personaggi, probabilmente uno dei testimoni degli sposi e lo stesso pittore. Ma dov’è il cagnolino, che nel dipinto compare ai piedi dei due protagonisti e che rappresenta la fedeltà coniugale? Perché nello specchio non si vede il griffon terrier, dal pelo arruffato? Semplice dimenticanza? È un effetto ottico che confonde il colore dell’animale con quello del pavimento? Oppure questa elusione allude anch’essa a un significato simbolico?

Van Eyck - Ritratto dei coniugi Arnolfini (particolare) - [Public domain] via Wikimedia Commons

Di misteri in questo quadro se ne sono voluti vedere molti, anzi troppi. Di certo la complessità semantica di questo dipinto è tale che le interpretazioni sono ancora oggi molteplici e contrastanti. Una di esse è particolarmente interessante, perché considera il ritratto una sorta di contratto di matrimonio in forma di dipinto, un’eventualità testimoniata dalla firma lasciata dal pittore sulla parete sopra lo specchio, il quale diventava, secondo l’espressione di Ernst Gombrich, un perfetto testimone oculare di un avvenimento.


VELASQUEZ – LAS MENINAS

Ed eccoci a uno dei dipinti più studiati di tutti i tempi, Las Meninas di Velasquez.
Innanzitutto “las meninas” sono le damigelle d’onore; infatti sulla tela compare in primo piano l’Infanta di Spagna circondata dalle sue dame di compagnia. A destra ci sono inoltre due nani di corte, un cane e altri personaggi; a sinistra, davanti a una grande tela di cui noi vediamo solo il retro, troviamo autoritratto lo stesso Velasquez che sta dipingendo, mentre in fondo, ritto sui gradini nel vano di una porta aperta, c’è un altro Velasquez, un maresciallo di palazzo omonimo del pittore che, all’atto di uscire di scena, si volge a guardare verso lo spettatore. In mezzo ai due, uno specchio riflette la coppia reale: Filippo IV di Spagna con sua moglie, la regina Marianna d’Austria.

Diego Velázquez - Las Meninas - [Public domain] via Wikimedia Commons

Molte interpretazioni sono state date a proposito di questo riflesso nello specchio.
Secondo l’interpretazione più diffusa, nello specchio si riflettono i sovrani, che occupano il posto dello spettatore e che sono in posa per il quadro che Velasquez sta dipingendo e che noi non vediamo.
Ma, se si segue la prospettiva eccentrica del quadro, che ha il punto di fuga nel vano della porta aperta dove staziona il maresciallo di corte, allora ne risulta che, per le leggi della riflessione, lo specchio non può racchiudere un luogo esterno, dove “posa” la coppia dei reali, bensì riflette la tela che sta dipingendo Velasquez e della quale scorgiamo solo il lato posteriore. Ciò che vediamo nello specchio è dunque l’immagine dei sovrani dipinta sulla tela nascosta.

Tuttavia, molto spesso in pittura, nel rappresentare una scena, non sempre si seguono le leggi della fisica. In particolare, quando nel dipinto compare uno specchio, si ricorre a un espediente, che di recente è stato denominato “effetto Venere”. L’effetto Venere è un fenomeno della psicologia della percezione, che deriva il suo nome da una serie di dipinti il cui soggetto è la dea Venere che si riflette in uno specchio (ricordiamo le Veneri di Tiziano, del Veronese, di Rubens e dello stesso Velasquez, che vediamo in basso). L’osservatore (interpretando a priori la scena e dimenticando che il suo punto di vista è completamente diverso dal punto di vista del personaggio nel quadro) solitamente crede che la dea stia guardando la sua immagine; ma, per le leggi dell’ottica e della riflessione, il personaggio raffigurato non potrebbe vedere nello specchio il proprio volto. Pertanto, il pittore, nel ritrarre la modella dalla propria posizione, non poteva vedere riflesso nello specchio il viso della donna. In poche parole, l’artista nella sua opera non segue le leggi dell’ottica, ma il suo scopo è quello di dare l’illusione allo spettatore che il personaggio raffigurato in quel momento sta guardando la propria immagine nello specchio.


Diego Velázquez, Venere allo specchio detta Venus Rokeby, 1647-51, National Gallery, Londra - [Public domain] via Wikimedia Commons

Quindi assumiamo l’interpretazione che lo specchio di “Las Meninas” riflette non la tela ma la coppia reale in carne e ossa situata al di fuori dello spazio pittorico.
Il Velasquez del quadro sta dipingendo il re a la regina sulla tela ed è ritratto mentre sta guardando i suoi modelli, che occupano effettivamente il posto, esterno all’opera, che ha lo spettatore che guarda il quadro. Ma non è solo lo sguardo del pittore che è rivolto alla coppia reale; anche l’Infanta, una sua damigella, la nana e il maresciallo di palazzo volgono gli occhi verso lo stesso punto esterno al quadro, cioè verso i sovrani. Ma questo punto esterno al quadro è lo stesso che occupa il Velasquez che sta dipingendo Las meninas ed è lo stesso spazio occupato dallo spettatore. Si crea una sorta di “trappola” delle illusioni, un corto circuito degli sguardi, un labirinto circolare che conferisce un’estrema ambiguità alla linea di confine tra il quadro e lo spazio esterno, tra finzione e realtà. Uno dei paradossi del dipinto consiste nell’essere apparentemente concepi­to, contrariamente alla tradizione, non dal punto di vista del pittore, cioè di Velàz­quez (nel qual caso ne scorgeremmo l’im­magine riflessa nello specchio, come succedeva nel “Ritratto dei coniugi Arnolfini”), ma da quello del modello (e dell’osservatore). In quello specchio dovrebbe apparire l’immagine del pittore, che dipinge Las Meninas; invece appaiono i modelli che Velasquez sta ritraendo sulla grande tela nascosta. Ecco il paradosso: nello stesso spazio coesistono pittore e modello ed il pittore, guardando verso quel punto esterno al quadro, in realtà sta guardando se stesso. Ed è lo specchio a creare tutto ciò.

Velasquez - Las Meninas (particolare) - [Public domain] via Wikimedia Commons

Ma i paradossi non finiscono qui.
Poiché la posizione dei due sovrani coin­cide con la nostra di osservatori, tutti i protagonisti danno l’inquietante impressione di guardare verso di noi, di fissarci con sorpresa e riverenza, anzi di essere là, come sul palcoscenico di un teatro, in funzione della nostra pre­senza. Con una sensazione di vertigine noi spettatori ci sentiamo attratti irresistibilmente dentro l’opera, eliminando la sensazione di estraneità e di confine che sempre ci accompagna quando guardiamo un dipinto. In questo caso noi varchiamo la soglia ed “entria­mo” nella scena, ne siamo parte a tutti gli effetti, la osserviamo mentre ne siamo os­servati.

Come è stato giustamente osservato da molti studiosi, questo dipinto, con la sua barocca complessità, è una acuta riflessione sulle potenzialità e le contraddi­zioni del linguaggio artistico e sulle rela­zioni tra verità e finzione, tra la realtà e la sua rappresentazione. È indicativo a questo proposito che il grande Picasso dipinse un ciclo di ben 58 dipinti e studi che sono reinterpretazioni del Las Meninas di Velasquez.

Pablo Picasso - Las meninas (flikr.com)


MANET – IL BAR DELLE FOLIES-BERGÈRE

Il bar delle Folies-Bergères è l’ultimo quadro di Manet e una delle più belle opere dell’Impressionismo. Questo capolavoro fu dipinto, con grande sacrificio, quando le condizioni di salute del pittore erano ormai disperate e quasi non gli permettevano di usare il pennello. Manet lo realizzò in studio, basandosi sui ricordi delle lunghe ore passate nel celebre caffè-concerto parigino.

La scena è ambientata in questo locale alla moda, frequentato dalla borghesia parigina. Il suo interno, le luci e il bel mondo che lo affolla non ci sono presentati direttamente, ma riflessi in un grande specchio, che dilata lo spazio e amplifica la luce della scena. Ci troviamo un’altra volta alle prese con l’effetto illusionistico di spazialità dilatata e di fronte alla rappresentazione di una relazione ambigua tra reale e riflesso, visibile e invisibile, campo pittorico e fuori campo. Questa relazione costruisce ancora una volta una messa in scena che coinvolge lo spettatore in un gioco di sguardi e di rimandi.

In primo piano ci troviamo una donna, la barista Souzon (veramente esistita), che sta davanti a noi con la sua seducente bellezza, la sua voluttuosa sensualità e nello stesso tempo con un’aria assente, apatica, gli occhi spenti, incurante della gente, del movimento e del rumore che animano l’ambiente intorno a lei e che la assediano. Sul bancone, Manet dipinge delle nature morte: sulla sinistra varie bottiglie di champagne e birra, sulla destra un bicchiere con delicati fiori dai colori pastello, un vassoio colmo di mandarini e altre bottiglie.

Manet, Il Bar delle Folies-Bergère, 1881-82, Courtauld Gallery, Londra.


Su quello stesso bancone si appoggia Souzon. Nello specchio dietro di lei si riflette anche la sua immagine di schiena, mentre è intenta ad ascoltare un avventore del bar. Lo specchio occupa tutto lo sfondo, e ci mostra il locale affollato e inondato dalle luci dei lampadari. La gente assiste allo spettacolo che si sta svolgendo nella sala, come testimonia il dettaglio delle gambe di un trapezista nell’angolo in alto a sinistra.
Attraverso l’espediente dello specchio, l’osservatore del quadro si trova catapultato all’interno della scena, come se fosse un altro avventore del bar, a cui la barista rivolge la sua attenzione muta e dimessa.

Se ci mettiamo di fronte al quadro, abbiamo una sensazione di ambiguità, di incertezza visuale; in un primo momento facciamo fatica a orientarci nello spazio raffigurato e a organizzare la percezione. Inoltre, dopo un primo sguardo, ci sembra di notare un errore ottico presente nella tela: da quella posizione, il riflesso della donna nello specchio ci appare scorretto, troppo decentrato e spostato a destra. Questo scarto crea nello spettatore un senso di instabilità, come se non riuscisse ad afferrare completamente una realtà che gli sfugge, che non obbedisce alle regole. Per molti anni si è creduto addirittura che Manet avesse sbagliato completamente la prospettiva presente all’interno di questo quadro, ma dopo innumerevoli studi anche di fotografia e con prove evidenti, si è constatato che, per poter avere una corretta rappresentazione prospettica degli oggetti presenti nel quadro, bisogna stare non di fronte al quadro, ma nella stessa posizione dell’uomo che vediamo riflesso nello specchio mentre parla con la barista. Questa visione eccentrica ci attesta come Manet, nei suoi ultimi quadri, è ormai al superamento definitivo delle leggi della prospettiva (che negli anni successivi caratterizzerà anche la pittura di Cézanne e poi delle varie avanguardie) e che, creando intersezioni di spazi e punti di vista diversi, voglia iniziare ad analizzare tutte le possibili proprietà dello spazio.

Lo specchio dilata lo spazio e contemporaneamente provoca un effetto straniante e uno sdoppiamento: nella cornice vediamo riflessa la realtà puntuale di ciò che sta accadendo in quel momento nella sala, una realtà fatta di luce, di movimento, di eccitata animazione. Ma la Souzon che vediamo in primo piano abita un’altra dimensione: uno spazio assente, silenzioso, ovattato di fatica o forse di noia, nel quale i rumori della sala giungono lontani e smorzati. La sua espressione esausta testimonia una condizione di assenza, di solitudine assoluta. La contraddizione tra le due realtà è stridente: l’abbagliante fantasmagoria che riluce nello specchio, la copiosità di cristalli, bottiglie e ornamenti contribuiscono ad accrescere il vuoto racchiuso in quegli occhi assenti, l’inerzia di quella postura. Sono due realtà estranee l’una all’altra. La donna è distante dal mondo brulicante in sala; ne partecipa solo il suo riflesso. Dopo un po’ che il nostro sguardo ha cercato vanamente di afferrare quegli occhi sfuggenti, ci sembra che, dietro quella figura grande e immobile, la realtà che anima lo specchio, con le sue luci sfavillanti, tenda a svanire, a divenire irreale, onirica.

La gagliarda sicurezza di quel mondo ottocentesco, che sembrava votato a un progresso inarrestabile, comincia a lasciare il posto a segni di disgregazione e di disfacimento. Un artista dalla spiccata sensibilità come Manet non poteva non cogliere i segni di quella nuova inquietudine che ben presto esploderà in forme aperte e drammatiche, creando il terreno sul quale si sarebbe sviluppata l’arte contemporanea.

BIBLIOGRAFIA

Brandt R., Filosofia nella pittura: da Giorgione a Magritte, Mondadori 2003.
Foucault M., Le parole e le cose, Bur Biblioteca Univ. Rizzoli, 1998.
Gombrich E. H., La storia dell’arte, Leonardo Arte, Milano 1997.
Hauser A., Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1956.
Lemaire G. G., Manet, Giunti Art Dossier.
Paoli M., Jan Van Eyck alla conquista della rosa, M. Pacini Fazzi 2010.
Spantigati C., Van Eyck, Giunti Art Dossier.
Tazartes M., Velasquez, Giunti Art Dossier.

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