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mercoledì 2 agosto 2017

Sguardi - Lo sguardo di Dio

Cristo Pantocratore (V secolo), Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai, Egitto.

Se i personaggi delle pitture vascolari greche sono rappresentati tutti di profilo, se i ritratti dei romani sono immersi in una loro interiorità o i loro sguardi sono indirizzati verso il mondo dell'aldilà, dobbiamo aspettare le icone cristiane per incontrare le prime immagini che ci guardano, per le quali anzi quello sguardo costituisce l'essenza della rappresentazione.
Le icone bizantine, nate nei monasteri orientali, sono caratterizzate dalle figure frontali e dalla predominanza del volto, soprattutto degli occhi, molto grandi e spalancati, considerati il luogo in cui si concentra l'energia dello spirito.
La religione dell’Antico Testamento era stata la religione della parola e del divieto categorico dell’immagine, perché Dio è il “totalmente altro” rispetto al tempo e allo spazio degli uomini, è colui che si rivela solo nel “logos” ma non si mostra mai. Il Dio dell’Antico Testamento e dell’Ebraismo è il Dio che si nasconde, è l’invisibile che resta tale, perché quando Mosé chiese a Dio di mostrarsi, la sua risposta fu categorica:
“Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”.

Il Cristianesimo, invece, è la religione dell’Incarnazione; essa si fonda sul messaggio rivoluzionario di un Dio che si è rivelato in forma visibile e, per di più, assumendo la natura di un uomo.
Con l’Incarnazione l’Invisibile ha preso forma, quantità, colore. Vincendo contro i fautori dell'iconoclastia, che affermavano il carattere idolatra di ogni rappresentazione del divino, la Chiesa ribadì la necessità dell'immagine come strumento, al pari della parola, per rivelare il mistero dell’Incarnazione, affermando l'esistenza di una complementarietà fra parola ed immagine, fra «Logos» e «Eikon», fra ascolto
e visione. Quello che la parola porta all’orecchio, l’immagine lo porta davanti agli occhi.
Dio, pur non identificandosi con le proprie rappresentazioni, è presente nell'icona. L’icona non è un ritratto, non vuole rappresentare il semplice ricordo di un fatto. L’icona è una presenza, una rivelazione, il mediatore visibile tra l'umano e il divino, tra il Verbo e la carne. Ecco perché una delle regole fondamentali della rappresentazione iconografica è la frontalità. Il profilo è già un’assenza. Nell’iconografia bizantina è vietato rappresentare Dio di profilo, perché il profilo interrompe il contatto diretto e impedisce la reciprocità dello sguardo. Viceversa, sono rappresentati di profilo i soggetti profani, alcuni personaggi dell’Antico Testamento e i demoni. Generalmente Gesù e i santi sono rivolti di faccia verso lo spettatore, oppure di tre quarti. Questo caratterizza l’arte cristiana fin dalla sua nascita. L’icona ci guarda e il credente, che indirizza la sua preghiera verso di lei, deve poterlo fare faccia a faccia, in un dialogo reciproco che è contemplazione interiore. Troveremo le prime raffigurazione di Gesù e dei santi di profilo nelle pitture di Giotto, alle soglie dell’arte moderna, quando lo scopo della rappresentazione sacra si volgerà verso la narrazione e l'illustrazione del fatto storico accaduto.
Giotto, anticipando il Rinascimento, fa affacciare il fedele-osservatore alla scena sacra (e infatti la prospettiva umanistica ha il suo punto di fuga in un punto interno alla scena), mentre nel mondo delle icone bizantine queste sono le “finestre” da cui il divino si affaccia nello spazio-tempo dell’umano. Le linee non vengono tracciate per convergere in un punto all’interno dell’icona bensì al suo esterno. Questo significa che le linee si dirigono in direzione inversa rispetto alla prospettiva centrale, convergendo in un punto che non si trova dietro il quadro ma avanti. Si ha l’impressione che la scena invece di perdersi nel fondo venga verso lo spettatore quasi ad incontrarlo. E qui sta il significato teologico di questa tecnica. É Dio che ha l’iniziativa, è Lui che viene verso l’uomo per rivelarglisi, incontrarlo, interpellarlo, invitarlo alla comunione con Lui.
Sia nell'arte sacra orientale che in quella occidentale il dipinto è una soglia, che viene però oltrepassata in direzioni opposte. Nel mondo occidentale il dipinto è lo sguardo dell’artista che raffigura Dio nella scena in modo che il fedele percepisca in essa una narrazione storica, il racconto di ciò che è avvenuto. Il punto di partenza orientale è, invece, diametralmente opposto. Colui che osserva non è più l’artista, ma Dio. L’immagine non è una finestra che introduce il fedele al mistero, ma è il mistero che guarda all’uomo. L’icona non è l’immagine di Dio, non ha valore di mimesi (e infatti è realizzata in modo antinaturalistico e rigorosamente bidimensionale), ma il luogo in cui Dio è presente e si può incontrare.
Mentre l’Occidente limita la portata dell’immagine cristiana a quella di un’illustrazione visivamente efficace della storia salvifica, l’Oriente ne fa addirittura il tramite stesso dell’irraggiarsi del divino nel mondo, attribuendole un carattere rivelativo, che fa dell’immagine stessa l’altra faccia della parola di Dio. Un quadro religioso del nostro Rinascimento rappresenta il ricordo di un evento storico sacro, avvenuto nel passato e nella storia dell’uomo. L'icona invece è una epifania, è la manifestazione attuale di Dio. Una icona, a differenza della rappresentazione occidentale di una scena sacra, non cerca il giudizio razionale ed estetico dell'osservatore, ma suscita una partecipazione immediata, una comunione interiore con il Sacro, un trasporto verso il divino che diventa contemplazione e preghiera.
L’icona deve poter rivelare il mistero dell’Incarnazione, mostrando la natura insieme umana e divina del Cristo. Il compito dell’iconografo è dunque dipingere l’essenza, guardandosi bene dal distrarre l’attenzione dell’osservatore aggiungendo elementi di paesaggio o di architettura. Questo perché il soggetto rappresentato deve essere percepito come una persona posta di fronte a un’altra persona. Se il fine è far cogliere l’essenza, risultano del tutto fuorvianti tutti gli accorgimenti che mirano al naturalismo della rappresentazione, cioè che costruiscono l’illusione di realtà, come l’uso della prospettiva, del chiaroscuro, della tridimensionalità, dell’armonia della parti.
L'icona non rappresenta la natura solo umana, visibile, di Cristo, ma il modo stesso in cui quel corpo contiene Dio, l'invisibile, l'energia spirituale che investe il fedele. La sua è una funzione non rappresentativa, ma liturgica, in quanto coopera con la parola e l'Eucarestia alla manifestazione dell’immagine del Cristo Signore, all’accadimento della sua presenza. Non è il credente a guardare l’icona, ma è il volto iconico che guarda il credente e suscita in lui l’esperienza della presenza. Il suo sguardo è sovrastorico ma anche storico, perché si rivolge a individui calati nella storia.
All'interno delle chiese ortodosse il credente entra in una dinamica relazionale spaziale distribuita in tutto il volume dell'edificio, per cui non è solo un osservatore ma anche un osservato. Di qui l'esigenza di avere una costruzione di forma circolare e di una cupola a forma di volta celeste: l'edificio si pone simbolicamente come immagine del cosmo, la cui figura centrale è quella del Cristo Pantocratore, sovrano e redentore dell'universo, i cui occhi profondi come l'abisso cercano, con espressione ieratica e insieme dolce, quelli del fedele, invitandolo a sentirsi parte del tutto.

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