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sabato 12 agosto 2017

Sguardi ritoccati

Eugene Smith, Deleitosa, Spagna, 1951.

Abbiamo visto l’effetto straniante e metacinematografico che lo sguardo in macchina, che agisce come interpellazione, è in grado di provocare all’interno di un film, come rottura della quarta parete.
Ma cosa succede in fotografia? Che effetto ha lo sguardo in macchina che si sporge da una immagine fotografica?
Si può ipotizzare che l’effetto sia diverso, perché diverse sono le modalità di fruizione di un film rispetto a quelle di una fotografia. Se, infatti, nell’ambito delle narrazioni di finzione (romanzo, cinema), lo spettatore si impegna a mettere temporaneamente da parte il dubbio e a considerare le storie come verosimili (patto di sospensione dell’incredulità), il rapporto dello spettatore con la fotografia, invece, fin dalle origini ha implicato un approccio che può dirsi diametralmente opposto.
Nel caso della fruizione cinematografica, infatti, l'atteggiamento dello spettatore segue una direzione che parte dalla consapevolezza della finzione e approda alla sospensione dell’incredulità e alla finzione di verità. Nel caso della fotografia, invece, accade per lo più il contrario.
La fotografia, infatti, nasce nel solco della tensione positivistica alla riproduzione oggettiva della realtà, come strumento di certificazione e di prova documentale del visibile, cioè di veridicità, fondando questa pretesa sulla propria archè di impronta automatica e meccanica della realtà. Nel cinema, pur essendo questo costituito da fotogrammi, prevale la dimensione della durata e del racconto. La successione delle immagini mette in secondo piano il loro legame con il referente, mentre questo non accade con la fotografia, che quel legame mantiene ben saldo.
E malgrado tutti i testi e tutti i dibattiti che hanno messo in evidenza la natura ambigua dell'immagine fotografica e la sua suscettibilità costante alla manipolazione (pratica oggi estremamente semplificata dalle nuove tecnologie), e nonostante tutte le decostruzioni del postmoderno, l'equazione fotografia=realtà oggettiva è rimasta salda ed immutata per anni, ed è ancora oggi talmente strutturata nel nostro immaginario che siamo portati a ritenere vera qualunque immagine fotografica.
Il dibattito degli anni Ottanta sullo statuto indicale della fotografia, in quanto traccia avente una connessione fisica con il referente, ha sviluppato (operando forzatamente un salto logico che porta dal concetto di impronta, che testimonia solo che l’oggetto referente “c’è stato”, a quello di veridicità, che implica invece una corrispondenza tra l’immagine e il suo referente) un’ontologia per la quale la fotografia è una finestra attraverso la quale vediamo il mondo: guardando una fotografia abbiamo di fronte l’oggetto stesso. Questo è il significato della definizione di medium trasparente.
La fotografia, detto in altre parole, gode di quella che viene definita “presunzione di veridicità”, che le conferisce una certa autorità quasi inoppugnabile, e che resiste ancor oggi. L'analisi critica e il dubbio sono operazioni che di solito “seguono” quell'immediata supposizione di verità, nonostante questa sia stata, fin dagli albori della fotografia, troppo spesso tradita da manipolazioni e interventi marcati, sia in fase di pre- (nella “messa in scena” del contesto) che in quella di post-produzione.
Lo sguardo in macchina, nel cinema, spiazza lo spettatore, in quanto rompe il meccanismo di finzione. Nella fotografia invece, proprio in quanto riproduzione oggettiva della realtà, lo sguardo diretto del soggetto ripreso è un fatto abbastanza comune, soprattutto nel campo della ritrattistica, della fotografia di moda e di pubblicità come nelle istantanee presenti negli album di famiglia di tutto il mondo.
Ma, come ci avverte la Sontag, “anche quando si preoccupano soprattutto di rispecchiare la realtà, [i fotografi] sono comunque tormentati dai taciti imperativi del gusto e della coscienza. […] Nel decidere quale aspetto dovrebbe avere una fotografia, nello scegliere una posa piuttosto che un'altra, i fotografi impongono sempre ai loro soggetti determinati criteri. Anche se, in un certo senso, la macchina fotografica coglie effettivamente la realtà, e non si limita a interpretarla, le fotografie sono un’interpretazione del mondo esattamente quanto i quadri e i disegni.” E uno sguardo in macchina, a volte, fa a pugni con la drammaticità che si vuole far esprimere a una immagine.
La fotografia che vedete cattura una scena intima, una famiglia raccolta intorno ad un suo caro defunto, nel villaggio spagnolo di Deleitosa.
L'immagine faceva parte di un reportage realizzato da Eugene Smith, intitolato "Villaggio spagnolo", pubblicato nella rivista LIFE nel 1951 e realizzato in pieno regime franchista.
Nella foto originale, due donne guardavano verso il fotografo. Quello sguardo puntato verso la macchina certamente attenuava il pathos della scena, infrangendo quell'iconografia del dolore e quell'estetica della morte stratificatesi in secoli di rappresentazioni pittoriche. E, soprattutto, lo sguardo diretto rivelava la presenza della macchina e del fotografo, cioè del dispositivo che si pone come mediatore e filtro tra la realtà e gli spettatori, sottraendo spontaneità all'immagine. In camera oscura Smith ritoccò gli occhi, applicando della candeggina con un pennello a punta fine per creare nuove aree bianche, reindirizzando gli sguardi delle due donne verso il basso e verso il lato, in maniera tale che nulla turbasse la drammaticità intima e raccolta della scena.
Se si osserva l'iconografia pittorica tradizionale del Compianto, si può spesso osservare la presenza di "sguardi in macchina". Da Beato Angelico a Perugino, da Bellini a Lorenzo Lotto fino al Bronzino, per citarne alcuni, qui non mancano le figure di admonitores, elementi deittici che instaurano un rapporto transitivo con lo spettatore, interagendo con lui nella forma dello sguardo o di altri gesti che attirano l'attenzione dell'osservatore e indicano il fulcro della scena. L'esclusione dello spettatore dalla rappresentazione, invece, cioè il suo fingere che non ci sia, è una questione tipicamente moderna, e che ha interessato tutte le forme espressive, non solo visive, ma anche letterarie.
In un'intervista rilasciata a Philip Halsmann nel 1956, Smith dichiarò: "Non ho nulla in contrario a inscenare, se e solo se ritengo che si tratti di intensificare qualcosa che è assolutamente autentico in quella situazione".
E all'obiezione di Halsman secondo cui "questo infrange le regole della fotografia spontanea", Smith rispondeva: "Non ho scritto io queste regole, perché mai dovrei rispettarle? Soprattutto quando spendo una quantità di energia e tempo per capire quel che sto cercando? Io chiedo e metto in scena, se ritengo che sia legittimo. L'onestà sta nella mia capacità di comprendere". (Cfr. http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2013/01/14/falsa-finta-inscenata-giusto-o-sbagliato/)
Anche la fotografia, pertanto, almeno in certe occasioni (per lo più in contesti narrativi), per non rompere l’illusione referenziale ed imporsi come finestra trasparente sul mondo, nonostante la presunzione di verità che è connaturata alla sua fruizione da sempre, ha bisogno di occultare il dispositivo che la crea e di porsi come mondo a se stante. Torniamo così alla distinzione tra teatralità e assorbimento di Michael Fried: perché lo spettatore possa percepire la rappresentazione con un effetto di realtà e di intensità drammatica tali da potersi immedesimare e partecipare in essa, è necessario che tale rappresentazione sia “assorbita” in se stessa, cioè che neghi la presenza dello spettatore e presupponga l’esistenza di una quarta parete. Questa convenzione non è altro che quella che fonda la narrativa della finzione, dove assume la forma della cancellazione dei segni dell'enunciazione.
Ecco il paradosso di uno strumento, la fotografia, da sempre percepito come finestra ‘attraverso’ la quale vedere il mondo (per il quale, cioè, il referente si impone come primario nella visione), che spesso è ricorsa ai meccanismi (drammatici e retorici) della finzione per accrescere il proprio effetto di veridicità, un effetto che nella nostra cultura, negli ultimi tre secoli, ha assunto le caratteristiche di un presentarsi come universo a se stante, non turbato o contaminato dalla presenza dell'osservatore e dell’intero dispositivo di ripresa e di fruizione.

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