Pagine

sabato 26 agosto 2017

LO SPECCHIO AMBIGUO: IDENTITÀ, DOPPIO, DEFORMAZIONI



IL DOPPIO NELLO SPECCHIO

Gli psicologi dell’età evolutiva sanno quanto lo specchio sia importante nel processo di acquisizione della propria identità da parte del bambino. Il legame tra specchio e identità viene da molto lontano, se si pensa che già Socrate e Seneca raccomandavano lo specchio come strumento per conoscere se stessi.

In tutte le espressioni d’arte e non solo, dalla letteratura al cinema, dalla pittura al teatro, numerose sono le testimonianze circa le implicazioni profonde del rapporto con la propria immagine allo specchio; e in particolare, in quest’ambito, la problematica dell’immagine allo specchio si confonde spesso con il tema del doppio.


Nello specchio l’immagine appare meravigliosamente perfetta, sia per somiglianza, sia per mobilità, sia per fedele obbedienza a ogni nostro gesto; ma è anche un’immagine capovolta, al negativo. Per questo il riflesso nello specchio ha spesso ispirato anche sensazioni oscure.

Nel folklore di vari paesi europei troviamo la credenza secondo cui lo specchio è in grado di catturare l’anima di chi si riflette. Da questa credenza scaturisce ad esempio l’usanza di velare gli specchi nella casa di un morto (perché lo specchio potrebbe trattenere l’anima e impedirle di andarsene), o il timore di rompere lo specchio, poiché la persona viva subirebbe la stessa sorte della sua immagine.

Ma il tema oscuro legato allo specchio più sviluppato dalle tradizioni letterarie e cinematografiche è senza dubbio quello dello sdoppiamento del sé.

La parola usata per indicare il doppio di una persona vivente è Doppelgänger (letteralmente “doppio viandante”). Si riferisce a un qualsiasi doppio o sosia, più comunemente in relazione al cosiddetto gemello maligno o all’esistenza di un alter ego che si trova in un luogo diverso (bilocazione). In alcune mitologie, i doppelgänger non proiettano ombre e non si riflettono negli specchi o nell’acqua e inoltre vedere il proprio doppelgänger è un presagio di morte.

Il tema del doppio inteso come scissione o sdoppiamento della personalità e quello del sosia o del gemello sono dei classici del cinema, e attraversano più o meno tutti i generi, dalla fantascienza al noir, dall’horror alla commedia al comico.

Per quanto riguarda il primo tema (personalità multipla) citiamo solo alcuni esempi: dalle trasposizioni, fedeli o parodistiche, di Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, a Psycho, Che fine ha fatto Baby Jane?, Vestito per uccidere, Shining, La metà oscura, Doppia personalità, ai più recenti A beautiful mind, Fight Club, Mulholland Drive, Identity, The machinist – l’uomo senza sonno, Shutter Island, Il cigno nero. In queste pellicole il doppio si caratterizza come allucinazione schizofrenica, o come disturbo dissociativo della personalità o come proiezione immaginaria di sé (tralasciamo il genere della commedia e tutti quelli in cui i protagonisti sono supereroi o personaggi leggendari dalla doppia vita).

Anche il tema del sosia o gemello è un topos che compare spesso: lo troviamo in cult come Metropolis e L’invasione degli ultracorpi e vari seguiti, e poi ancora in Vertigo – La donna che visse due volte, Lo specchio scuro, L’anima e il volto, Chi è l’altro?, l’episodio William Wilson di Tre passi nel delirio (da Poe), Doppia immagine nello spazio, Despair, Sisters, Lo zoo di Venere, Inseparabili, La doppia vita di Veronica, The Island, The prestige.


LO STUDENTE DI PRAGA (1913)

Il tema del doppio, cioè dell’estraneo identico che fa dubitare del proprio stesso Io, in ambito cinematografico ha origine con un film del 1913, di Stellan Rye, Lo studente di Praga (Der Student von Prag), considerato uno dei primi capolavori, tra i più innovativi e visionari, del cinema muto tedesco (e infatti il tema del doppelgänger è molto comune nella tradizione letteraria tedesca). In esso uno studente squattrinato, Balduin, innamorato di una ricca contessa, vende la propria immagine riflessa (che prende vita propria e si stacca fisicamente dallo specchio) a un personaggio mefistofelico, il dottor Scapinelli. Inutile dire che Balduin sarà perseguitato dal suo stesso alter ego, personaggio malvagio, perché appunto versione negativa dell’originale. Il finale ricorda quello del Ritratto di Dorian Gray, con lo studente che uccide il suo doppio e in questo modo uccide se stesso.


Come anche nel racconto di Stevenson, Dr. Jekyll e Mr. Hyde, si assiste a una contrapposizione duale nel quale il Bene (l’uomo reale), dotato di anima, si contrappone antiteticamente al Male (il riflesso, il doppio, il negativo, puro simulacro privo di anima).


LO SPECCHIO SCURO (1946)

A partire dagli anni ’40, il cinema incontrò la psicoanalisi, trasponendo sulle pellicole vicende che ruotavano intorno al ruolo dell’inconscio e di altri elementi evidenziati da quella disciplina e pratica terapeutica. Il tema del doppio in particolare affascinò registi e produttori, che riproposero sullo schermo le storie di gemelli o di personalità multiple.

Un doppio incarna tutto ciò che è l’esatto contrario di ciò che siamo. È l’antitesi del nostro modo di essere: la parte oscura, negativa, incarnazione delle nostre paure o delle nostre inconfessabili perversioni, ma anche quella più istintiva, libera da imposizioni e condizionamenti sociali, personificazione dei nostri desideri più reconditi. Il doppio ci attrae e ci spaventa, rappresenta ciò che vorremmo ma non abbiamo la forza di essere e di fare e che l’educazione ci ha portato a respingere come diverso e lontano da noi, qualcosa da cui fuggire o da rimuovere. Il cinema sfrutta il motivo del doppio proprio per registrare la compresenza conflittuale dei contrari: luce e tenebre, bene e male, verità e finzione, salvezza e dannazione.

Lo specchio scuro (The dark mirror) è un film di Siodmak, regista tedesco emigrato in Europa, che realizzò numerosi film noir (uno tra tutti: La scala a chiocciola, 1945), trasferendo a questo genere le atmosfere dell’espressionismo tedesco.

Lo specchio scuro (regia di Robert Siodmak, 1946)

La trama è semplice: un medico è stato pugnalato e molti testimoni identificano la donna che lo ha ucciso. La sospettata però ha una gemella; toccherà a uno psichiatra individuare, insieme al tenente di polizia, quale delle due sorelle è l’assassina psicopatica.

Il tema dello sdoppiamento è trattato sia in funzione rappresentativa (la De Havilland è in duplice ruolo) che nell’esercizio psichiatrico tendente a sviscerare la doppia personalità, non tanto inconscia, di un soggetto apparentemente normale, ma psicotico e assassino.

Il noir non è un genere dai contorni ben definiti. Esso si caratterizza soprattutto per le sue atmosfere, che sono sempre inquietanti, anche quando sono familiari, perché rese sinistre dalla fotografia contrastata, dall’illuminazione espressionistica, dalla composizione dell’inquadratura.

Ne Lo specchio scuro, film tra il noir e il thriller psicologico, c’è inquietudine, ambiguità e suspence, ma niente colpi di scena, ed è un po’ didascalico nella contrapposizione fra il bene e il male (identificati, nella scena a cui rimanda questo link, un po’ troppo banalmente dal bianco e nero degli abiti).



In questa scena le due gemelle (interpretate entrambe, come si è detto, da Olivia de Havilland), sono insieme di fronte a uno specchio. Da notare come il montaggio faccia in modo che siano tre le immagini presenti nell’inquadratura: le due gemelle più l’immagine riflessa allo specchio di una delle due. Il riflesso speculare evidenzia come ognuna delle due sorelle abbia a sua volta una personalità scissa. Come tutte le storie di doppi, anche questa esigerà il suo drammatico epilogo. Il doppio non può avere vita lunga. Appena prende il via la vicenda in cui è protagonista, si sa già come andrà a finire: il dualismo deve venir meno, uno dei due elementi o entrambi devono soccombere. Un doppio implica sempre disordine, capovolgimento, caos nell’economia della storia, e smarrimento e angoscia nello spettatore. Il racconto deve evolvere verso il ripristino dell’ordine, eliminando l’anomalia. In questo caso, nel rispetto dei canoni hollywoodiani, sarà il bene a trionfare.



DESPAIR (1978)

Despair (“Disperazione”) è il primo film in lingua inglese del regista tedesco Rainer Werner Fassbinder. Tratto dal romanzo omonimo di Vladimir Nabokov e interpretato da Dirk Bogarde e Andréa Ferréol, su sceneggiatura scritta da Tom Stoppard (autore anche di quella del film Brazil di T. Gilliam, e di opere teatrali come Rosencrantz e Guildenstern sono morti).
È la storia di un industriale del cioccolato, emigrato dalla Russia in Germania, di nome Hermann Hermann (doppio già nel nome), ambientata nel 1930, che entra in una profonda crisi di identità.
Quello della crisi dell’identità dell’individuo nella società moderna è il tema prediletto da Nabokov e la crisi del protagonista richiama quella, economica, politica, culturale, di una nazione anch’essa lacerata, nella fase di passaggio dalla Repubblica di Weimar all’ascesa del Nazionalsocialismo.
Hermann è un uomo di mezza età pervaso da un profondo senso di angoscia e di inutilità, reso nel film dallo sguardo di autentico orrore con cui osserva, nella sua fabbrica, la produzione in serie delle statuette di cioccolato. Cittadino a disagio per le sue origine ebraiche in una Germania sempre più antisemita, industriale che non ama il proprio lavoro e alle soglie del fallimento, marito incapace di soddisfare i desideri della moglie Lydia, procace e seducente ma priva di cervello, che lo tradisce con il supposto “cugino” Ardalion, Hermann vive in un lussuoso appartamento che è un labirinto di specchi e vetrate, zeppo di decorazioni e oggetti raffinati in art-déco. L’uomo non riesce più a convivere con se stesso e si sforza di uscire da questa condizione attraverso un processo di sdoppiamento, dando vita a un alter ego. Qui usciamo un po’ fuori dagli schemi canonici. In questo caso il personaggio non si imbatte nell’orrore del suo doppelgänger, ma è lui stesso a “ingaggiarlo”, a conferirgli il ruolo, esattamente come fa un regista con l’attore di un film. Il suo piano è quello di riscuotere l’assicurazione sulla vita uccidendo un vagabondo, Felix Weber, nel quale Hermann vede, a torto, il proprio sosia e al quale trasferisce, per così dire, la propria identità. Egli finge di offrirgli un lavoro come controfigura per alcune riprese cinematografiche. Dopo averlo ucciso, convinto di aver commesso il delitto perfetto, quello in cui la vittima è l’assassino, si impadronisce dei suoi abiti e documenti e si rifugia in Svizzera. Ma le facoltà mentali di Hermann sono ormai tanto alterate da non accorgersi che Felix non è per nulla un sosia, anzi, da questo punto di vista è indicativo come egli non utilizzi come proprio alter ego qualcuno a lui identico, ma un rovescio di se stesso: Felix è tutto ciò che Hermann non è – libero, sporco, determinato. Il suo piano verrà presto scoperto dalla polizia, che circonderà l’albergo in cui si è rifugiato.

Despair (Disperazione, regia di Rainer Werner Fassbinder, 1978)

Noi possiamo assistere, chiaramente e quasi al rallentatore, alla progressiva catastrofe mentale di Hermann, che si muove in una condizione sempre più alienata e allucinata. Lo sviluppo della storia è già anticipato nella sequenza ambientata in un cinematografo, dove si proietta un film muto sulla storia di due gemelli – uno fuorilegge, l’altro poliziotto – che che ha un tragico epilogo.
Alla sua uscita Despair non riscosse né il favore del pubblico, né quello della critica, perché si giudicò il tema del “doppio immaginario” come estraneo all’universo di Fassbinder. I commenti all’indomani della prima proiezione al Festival di Cannes furono concordi nel contenere il valore dell’opera nei termini di un esercizio di stile, per quanto raffinato e intelligente. Alcune critiche più recenti lo definiscono invece un superbo noir surrealista (e il riferimento al surrealismo è presente anche nella dedica del film, che va a Antonin Artaud, Vincent Van Gogh e alla pittrice surrealista Unica Zürn, oltre al fatto che vedendo il film, inevitabilmente vengono in mente i nomi di Grosz e Magritte).
Fassbinder realizza un film barocco nella messa in scena, piena di specchi che moltiplicano le immagini; egli rappresenta un “teatro dell’angoscia” in cui le vere protagoniste sono la decadenza e l’alienazione dell’individuo borghese, la sua condizione mentale malata. Hermann è il modello tipo di quell’individuo, sostanzialmente imbelle e codardo, con fantasie sadiche di dominatore, ma di fatto impotente, che si illude di diventare padrone della propria esistenza attraverso lo sdoppiamento di se stesso: sono questi gli ingredienti psicologici in cui nasce e si sviluppa ogni totalitarismo.


LA DOPPIA VITA DI VERONICA (1991)

“In tutta la mia vita ho avuto sempre l’impressione di essere qui e altrove”, dice Véronique, il personaggio “francese” de La doppia vita di Veronica, di Krzysztof Kieślowski.


La doppia vita di Veronica (regia di Krzysztof Kieślowski, 1991)

Weronika e Véronique sono identiche, stesso volto, stessa passione per la musica, stessa deformazione cardiaca, ma non si conoscono, vivono l’una in Polonia, l’altra in Francia, parlano lingue diverse. E tuttavia ognuna “sente” l’esistenza dell’altra. Due vite parallele, due diversi destini che in qualche modo entrano in contatto e si influenzano a vicenda.

Weronika sceglierà di sacrificare tutto, amore e salute, alla sua passione per il canto e morirà (di una crisi cardiaca morirà anche lo stesso Kieślowski pochi anni dopo questo film); Véronique sceglierà di prendersi cura di sé e di continuare a vivere e ad amare. Come se la vita dell’una rinascesse dalla morte dell’altra, nello stesso modo in cui, in una bellissima scena del film, una marionetta ballerina muore e rinasce farfalla.


La Weronika vede la sua sosia francese di sfuggita, mentre quest’ultima, durante un viaggio in Polonia, scatta delle foto da un autobus che attraversa una Cracovia in rivolta, con manifestanti e polizia schierata. Nelle leggende sui doppelgänger, vedere il proprio doppio è un presagio di morte. Weronika morirà poco dopo aver visto Véronique, come se la vita non permettesse di trovarsi di fronte a un altro se stesso, di risolvere l’assurdo di essere nello stesso tempo qui e altrove. Alla morte di Weronika, il suo doppio che vive in Francia avverte subito una grande tristezza e una profonda mancanza, ma sarà più tardi una fotografia, scattata durante il suo viaggio in Polonia, a farle prendere consapevolezza dell’esistenza di un’altra donna in tutto uguale a lei, come un’altra se stessa. Una fotografia testimone di un incontro mai avvenuto, perché impossibile e fatale, e di cui può al massimo rimanerne traccia in una foto, un riverbero, un riflesso di luce proveniente da uno specchio.

Questo film gioca molto sugli specchi, i prismi, le lenti, le superfici trasparenti (come una biglia di vetro), che sdoppiano la realtà ma permettono anche di capovolgere i significati e di vedere il mondo in modo diverso.



Un film sulla possibilità di vivere diversamente la propria vita, di avere un’altra opportunità, di fare scelte diverse, e anche un film sul senso di perdita che ogni scelta comporta: la perdita di ciò che non si è scelto, la nostalgia per qualcosa che non ci è mai appartenuto.

Weronika muore sul palcoscenico di un teatro (vedi link 1, più sotto), mentre canta il brano di un concerto composto da un certo Van den Budenmayer. In realtà questo musicista non è mai esistito, e la musica è opera di Zbigniew Preisner. Altra curiosità: le parole del brano sono tratte dal Secondo Canto del Paradiso e parlano metaforicamente di un viaggio rischioso da intraprendere, perché ci si potrebbe smarrire:




IL CIGNO NERO (2010)

Dal regista di Requiem for a dream, Darren Aronofsky, ecco un film più patinato e adatto al grande pubblico, ma sicuramente avvincente nella trama e messa in scena: Il Cigno Nero. Lungo tutta la pellicola seguiamo la metamorfosi della protagonista, una ballerina di nome Nina (Natalie Portman), in “cigno nero”. I personaggi dell’opera di Tchaikovsky, Odette e Odile, sembrano prendere vita, come sdoppiamento della personalità di Nina: una fredda, repressa e riservata, alla costante ricerca delle perfezione tecnica (il Cigno bianco), l’altra sicura di sé, sfrontata e sensuale (il Cigno nero). L’elemento principale che mostra allo spettatore il percorso interiore di Nina è lo specchio, presente nel film in modo quasi ossessivo. Strumento primario del ballerino che si esercita nelle sue figure, lo specchio rappresenta qui la superficie dove Nina cerca all’inizio continue conferme alla sua identità e il superamento delle proprie insicurezze e pian piano si trasforma nella superficie in cui avviene la sua metamorfosi, l’evoluzione del suo lato oscuro. Quest’ultimo, già intuibile fin dall’inizio negli atti di autolesionismo di Nina, emergerà drammaticamente nel corso del film, in seguito alla pressione psicologica del coreografo Thomas, il quale tenterà di estrarre dalla ragazza, che dovrà interpretare entrambi i personaggi dell’opera, la sua parte repressa, l’anima passionale e volitiva del Cigno Nero, nascosta sotto la sua apparente freddezza e riservatezza. Mentre Thomas incoraggia Nina a diventare finalmente una donna adulta, dall’altra parte la ragazza subisce le pressioni opposte di un altro personaggio manipolatore, sua madre Erica, che proietta sulla figlia le proprie aspirazioni frustrate, tentando di bloccarla in uno stato di repressa purezza infantile.

Il cigno nero (regia di Darren Aronofsky, 2010)


Altra figura importante del film è la sua rivale, Lily, colei che insidia il suo ruolo di prima ballerina, un perfetto alter ego, passionale e disinibito, che lei teme e dal quale è nello stesso tempo attratta e sedotta. In una sua allucinazione, infatti, Nina ha con Lily anche un rapporto saffico. In una sequenza, nella parte finale del film, Nina immagina (e lo spettatore vede) una lotta tra se stessa e Lily nel camerino: Nina crede di uccidere la sua rivale, ma in realtà uccide se stessa, eliminando l’unico vero ostacolo alla liberazione finale del Cigno Nero che è cresciuto in lei. È indicativo, da questo punto di vista, che l’arma che Nina usa per questo inconscio “sacrificio” liberatorio è proprio il frammento di uno specchio rotto. Nello specchio era emerso il suo doppio ed è un frammento di quello specchio l’arma che libera definitivamente quel doppio da ogni residua costrizione. Lo specchio rappresentava infatti l’unico legame psicologico tra le due personalità, l’elemento che rivelava ancora la presenza di un dualismo. Una volta ridotto in frantumi, il dualismo viene meno. Nel duello tra Cigno bianco e Cigno nero, è quest’ultimo il vincitore, ma al prezzo della morte di entrambi. Come in buona parte delle storie di doppi, l’originale uccide il suo alter ego, e così facendo distrugge se stesso.

Quando Nina, nelle sue paranoie allucinate, si trova di fronte al suo Doppio, cioè l’immagine di se stessa allo specchio che sembra vivere di vita propria, l’immediata conseguenza è una terribile angoscia, la dissoluzione del suo io, la distruzione delle fondamenta del suo mondo e del suo universo di certezze e sicurezze.

Come nella tradizione legata al doppio, l’alter ego da una parte opera ai danni del soggetto, gli appare nei momenti meno opportuni e sembra perseguitarlo per annientarlo, dall’altra realizza i suoi desideri più reconditi o rimossi, agisce come il soggetto, di norma represso, non oserebbe mai, perché i condizionamenti morali e culturali frenano la libera manifestazione dei propri istinti e impulsi più reconditi. Lo sdoppiamento evoca quello di Narciso, talmente alieno a se stesso che arriva a vedere, nel proprio riflesso, un altro, talmente diverso e affascinante, da “cadere” letteralmente innamorato di esso. In questo rapporto conflittuale e di duplice valenza narrativa, la messa in crisi del soggetto subisce un’evoluzione inarrestabile. Il Doppio porta avanti un’azione persecutoria e di messa in crisi delle certezze e dell’equilibrio dell’Io, in un’escalation tale che alla fine l’unica via di scampo per quest’ultimo sembra l’uccisione del suo alter ego, ma, uccidendolo, il soggetto uccide se stesso. L’Io e il Doppio non possono sopravvivere l’uno all’altro.

In questo filmato una delle scene clou del film, quella dove nello specchio comincia a materializzarsi il doppio. Molte le mise en abyme nel film, che mettono in scena in modo incisivo la frantumazione della personalità di Nina, esattamente come sarà frantumato l’ultimo specchio del film.




L’IDENTITÀ SI RIVELA ALLO SPECCHIO

Quarto potere (1941)

Le mise en abyme (locuzione francese che significa letteralmente “collocato nell’infinito” o “collocato nell’abisso” e che indica una tecnica nella quale un’immagine contiene una piccola copia di se stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito) è un effetto molto usato nel cinema. In particolare alcuni film di Orson Welles contengono delle scene chiave girate facendo ricorso a specchi multipli con questo effetto di “inabissamento”. Questa della foto è una delle scene più celebri di Citizen Kane (Quarto potere, 1941). In essa vediamo il protagonista Charles Kane nel suo castello di Xanadu attraversare un corridoio arredato di specchi che riflettono e moltiplicano la sua immagine all’infinito.

Quarto Potere (1941)


In una sola scena il regista riesce a far “vedere” quanto complessa, molteplice, inafferrabile sia la personalità del personaggio Kane, e quanto grande, ineluttabile e fatale la sua solitudine. Non la solitudine di chi si ritira in se stesso, ma quella di chi dilata se stesso fino a cancellare tutto il resto, proiettando il proprio io all’infinito.

Quarto potere si svolge come un film inchiesta (Borges lo definì un “giallo metafisico”); è la storia di un giornalista che, intervistando i vari personaggi che ebbero a che fare con il cittadino Kane, cerca di scoprire il significato della sua ultima parola, pronunciata prima di morire, “Rosebud” (bocciolo di rosa). Ma il giallo rimane senza soluzione. L’immagine di Kane che ne viene fuori non è univoca, ma ambigua e molteplice; ciascun personaggio ci racconta di questo “Self Made Man” dal proprio punto di vista, così come spesso una stessa scena viene ripresa da punti di vista diversi.

Quella degli specchi è la scena chiave di tutta la narrazione; essa dà senso alla prima e ultima inquadratura del film: il cartello “No trespassing” appeso al cancello di Xanadu. Non si passa. Per quanto ci si sforzi la vera personalità del Citizen Kane resterà sempre un rompicapo, un mistero insondabile e imprendibile. Né il regista nel raccontare, né lo spettatore nel vedere possono entrare dentro e riuscire a capire la vita di un uomo.

Se prima di Quarto potere il linguaggio filmico era strutturato in modo che lo spettatore fosse indotto a farsi un’idea univoca della vicenda e dei personaggi narrati, in questo film Welles, facendo largo uso della profondità di campo e dei piani sequenza, e soprattutto di una narrazione a flashback senza continuità temporale, obbliga lo spettatore a una visione più attiva e a un contributo positivo alla messa in scena. Il peso narrativo viene lasciato soprattutto all’immagine e alla sua forza evocativa, piuttosto che al montaggio.
In questo filmato è possibile vedere la scena qui descritta.



Il servo (1963)

“The servant” (“Il servo”) di Losey è un film della prima metà degli anni Sessanta, che tratta del conflitto di classe: ma di un conflitto giocato nell’intimità domestica, in un rapporto psicologico tra il servo (un grande Dirk Bogarde) e il padrone (un James Fox all’esordio).

Tony, un ricco giovane londinese, assume come servitore Hugo Barrett. Inizialmente quest’ultimo pare assolvere con zelo e fin troppo ossequio al proprio incarico e i due sembrano calarsi perfettamente nei rispettivi ruoli, ma pian piano questa relazione dominus-servus inizia a trasformarsi e a ribaltarsi.


The Servant (Il servo) - regia di di Joseph Losey, G.B. 1963.

Dall’omonimo romanzo d’esordio di Robin Maugham, Il servo è un film spietato, claustrofobico, implacabile, un dramma psicologico giocato come un thriller. È un film che tratta i rapporti di potere: quelli tra le classi sociali come quelli tra i sessi. La dialettica hegeliana servo-padrone non sfocia qui in lotta di classe, ma in un confronto spietato e quotidiano. Il personaggio del padrone debole, uomo senza qualità, rappresenta una classe borghese ormai decadente, mentre il servo Hugo Barrett è il personaggio teso alla completa devastazione dell’ipocrisia di quella classe in disfacimento e alla conquista del potere, qui inteso come completo assoggettamento dell’altro. Eppure il film non si risolve solo in questo, perché il rapporto tra i personaggi è caratterizzato da una complessità molto più ambigua.

Ambientato quasi tutto nello spazio claustrofobico di una casa a tre piani, che costituisce anch’essa una protagonista della trama, il film beneficia della perfezione formale della messa in scena, che fa uso abbondante del ricorso a specchi e superfici riflettenti e deformanti. Lo sviluppo di alcune scene si gioca addirittura tutto in uno specchio. Vediamo in particolare questa foto che rappresenta il fotogramma di una scena chiave dell’inizio del film. Il servo, di cui si vedono le mani in primo piano, sta lucidando uno specchio leggermente convesso e quindi lievemente deformante. In esso è riflessa la sua immagine e, in secondo piano, quella del suo padrone. Qui l’ambiguità dello specchio amplifica il significato dell’inquadratura: oltre a dilatare lo spazio, infatti, mostrando ciò che non è inquadrato direttamente, lo specchio riflette una realtà al contrario, dove la destra e la sinistra sono invertite. Quindi l’immagine servo-padrone, riflessa nello specchio, anticipa il capovolgimento di quella relazione, che sarà lo sviluppo dell’intero film. E ciò che si ribalterà sarà anche lo stesso personaggio di Barrett, che rivelerà la sua doppiezza: da servo ligio ed ossequioso ad aguzzino spietato.

“La mia sola ambizione è servirti”, dice Barrett a Tony all’inizio del film. Capovolta, reciterebbe: “La mia unica ambizione è dominarti”. E il film è proprio la storia di un ribaltamento, esattamente come si capovolge un’immagine riflessa nello specchio.


Taxi driver (1976)

Gli specchi che compaiono in questo film di Scorsese ci introducono nel mondo disturbato della psiche del protagonista; sono come delle finestre che ci portano ad affacciarci nel buio dei suoi deliri interiori.

Attraverso lo specchietto retrovisore del taxi guidato da Travis (Robert De Niro), reduce di guerra, veniamo introdotti nell’universo notturno di New York, con il suo degrado e la sua violenza, con la sua fauna di personaggi disparati: drogati, prostitute, spacciatori, magnaccia, uxoricidi, criminali, i dannati che occupano il sedile posteriore della vettura, mentre il tassista-Caronte li traghetta da una parte all’altra della città. Lo specchietto retrovisore, attraverso cui Travis osserva quel mondo, è la porta attraverso cui varchiamo la soglia che separa la metropoli luminosa e scintillante vista alla luce del sole dalla sua anima notturna, depravata e violenta.

Taxi Driver – regia di Martin Scorsese, 1976.


Come scrive Paul Schrader, lo sceneggiatore del film, Travis “è l’uomo che porta chiunque ovunque per denaro, l’uomo che si muove nella città come il topo nella fogna, l’uomo che è costantemente circondato dalla gente e tuttavia non ha amici. Il simbolo assoluto della solitudine urbana… Il film si impernia su un’automobile come simbolo della solitudine urbana, una bara metallica”.

Questa condizione è tutta nel monologo che avviene davanti allo specchio:

“Ma dici a me? Ma dici a me? Non ci sono che io qui…”

Se la prima parte della frase – il famoso you talkin to me? – è una delle battute più celebri e più citate della storia del cinema, quel “non ci sono che io qui…” è il vero fulcro del film. Travis è un uomo che vive una solitudine assoluta, quella di colui che non ha più nemmeno una sua propria identità. Egli è alla ricerca di un suo io, ma in questo caso lo specchio non funge da strumento di identificazione, bensì di dis-identificazione. Nella sua immagine riflessa egli proietta il mondo che rifiuta e da cui è rifiutato; Travis sta di fronte ad essa, con pistola e divisa mimetica, come al cospetto del suo nemico.

Il monologo davanti allo specchio sancisce un momento di cambiamento nella sua vita: è il passaggio dalla precedente condizione di semplice osservatore blandamente impegnato ad annotare quotidianamente su un diario lo squallore della sua routine e i propri miseri sforzi di identità, alla decisione di “fare qualcosa”, di compiere il gesto epico, decisivo, la missione che riscatterà la sua vita e cambierà la storia, la catarsi universale in grado di riportare l’ordine nel caos. Ma colui che non ha un proprio io e non riconosce l’altro da sé, non può che scambiare la palingenesi del mondo con il delirio farneticante e ingenuo delle proprie fantasie.

Attraverso quello specchio fluiscono metaforicamente e si esternano rabbia repressa e desiderio di autodistruzione. Ma lo specchio del monologo è anche un varco che conduce lo spettatore nell’abisso di una mente alienata, nella follia delirante e schizofrenica che esploderà in violenza. Lo spettatore lo attraversa quel varco, perché fin lì i monologhi fuori campo di Travis l’hanno portato a identificarsi con lui, con l’eroe della storia, ambiguo e pazzoide, ma pur sempre eroe, con il quale condivide il rigetto di quella società corrotta e crudele.

E alla fine l’intero film è uno specchio che ci inoltra nel lato oscuro dell’America anni Settanta, un’America ferita e sbandata, artigliata dal dramma post-Vietnam e dalla disgregazione sociale. Nel personaggio di Travis quella società raggiunge l’apice delle sue contraddizioni, delle sue illusioni e frustrazioni, delle sue incoerenze e idiosincrasie.

In questo filmato la celebre scena del monologo allo specchio.




Memento (2000)

Riuscite ad immaginare una situazione angosciosa pari a quella di chi si guarda allo specchio e non si riconosce? O meglio, ricorda il suo nome, sa chi è stato, cosa gli è accaduto tanto tempo prima, ma non sa nulla del suo passato recente, di ciò che ha fatto ieri, del luogo in cui si trova, di cosa è diventato nel frattempo, delle persone che gli sono intorno. È quello che succede a Leonard Shelby (Guy Pearce), protagonista di Memento, il secondo e ambizioso film di Christopher Nolan, un thriller psicologico che mette senza dubbio alla prova l’intelligenza dello spettatore.

Leonard Shelby è stato vittima di un’aggressione, durante la quale ha subito un trauma cerebrale che gli impedisce di avere memoria a breve termine; Leonard cioè dimentica tutto ciò che ha vissuto di recente e praticamente non ha più nessun ricordo successivo al trauma. Finora il cinema ci aveva abituato a storie di amnesia, a personaggi alla ricerca di un passato anteriore a un qualche avvenimento traumatico. In questo caso invece il passato è nitido; ciò che lui e lo spettatore devono ricostruire sono gli avvenimenti avvenuti dopo quell’avvenimento.

Memento - regia di Christopher Nolan, 2000

Nella stessa aggressione è rimasta vittima anche la moglie di Leonard, per cui motore del film è la sua ricerca di vendetta. Ma come orientarsi senza la possibilità di ricordare il passato immediato? Per questo egli ha elaborato una strategia: appunti scritti, polaroid, tatuaggi su tutto il corpo che gli forniscono indicazioni su cosa è successo e cosa dovrà fare. La cosa che più ci colpisce sono senza dubbio i tatuaggi. Sono incisi su tutto il corpo e quelli sul torace sono scritti al contrario, in modo che possano essere letti solo di fronte a uno specchio. Quei segni impressi sulla carne sono la sua unica salvezza, la sua unica possibilità di identità, che si riduce a un certo numero di indizi e a degli obiettivi da perseguire. C’è più di una scena nel film in cui il protagonista è di fronte a uno specchio. È uno specchio che non riflette un’identità, ma solo dei propositi, delle azioni da compiere. E senza memoria, condannato a un eterno presente, quei propositi tatuati sulla pelle inducono il protagonista a rifare la stessa azione, a ripeterla senza soluzione. Lo specchio, senza la consapevolezza del tempo che passa, conduce fatalmente all’inganno. L’identità presuppone la memoria e la consapevolezza; presuppone il “flusso di coscienza”. Una memoria fuori dalla coscienza, riposta esclusivamente in segnali esterni, come le foto e gli appunti scritti, rischia di diventare una memoria fallace, parziale perché manipolabile dalla volontà. Un’esistenza legata esclusivamente al momento presente, è precaria, caotica, senza senso; senza passato, il futuro è solo menzogna. Per sopravvivere e trovare uno scopo, ci si aggrappa alle menzogne. Ed è quello che farà Leonard, per poter continuare ad andare avanti.

La particolarità di questo film è senza dubbio il montaggio. Esso è infatti costruito a ritroso, partendo dall’ultima scena. Ma anche se all’indietro, la sua struttura non è lineare, ma procede su due tempi narrativi opposti: le scene che si susseguono sono alternativamente l’ultima in ordine cronologico, poi la prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. La scena finale del film è quindi quella cronologicamente centrale, in cui l’intreccio si scioglie con relativo colpo di scena. Sembra davvero un rimbalzare di specchi, come una mise en abyme cinematografica.

Sequenza dopo sequenza, lo spettatore si trova nello stesso stato di consapevolezza (e di spaesamento) del protagonista, anche se il racconto procede a flashback, proprio perché Leonard non ricorda nulla del suo passato recente.

Nolan mette alla prova il linguaggio del cinema, portando alle estreme conseguenze le potenzialità del montaggio. Decostruendo e ricostruendo la linearità del racconto, mette in moto un meccanismo perverso, un rompicapo difficile da sbrogliare, che obbliga lo spettatore a riprendere continuamente le fila, a cercare di dare alla narrazione una unità logica e temporale, mettendo in sequenza i fatti, orientandosi all’interno di una realtà labirintica che si riazzera continuamente. Egli dà vita a un mondo frammentato e caotico, e, forse per questo, perfetta rappresentazione di quello attuale.



Nessun commento:

Posta un commento