sabato 16 dicembre 2017

Lo specchio rotto di Mino Ceretti

Mino Ceretti, Uomo allo specchio rotto (1956)

Di un mondo in sfacelo parla anche la pittura di Mino Ceretti.
Abbiamo visto finora specchi infedeli che riflettono secondo leggi contrarie alla fisica, specchi che moltiplicano l'immagine all'infinito, specchi che la distorcono. Qui vediamo invece uno specchio rotto, che riflette un uomo a pezzi. Il ritratto, la storica rappresentazione del sé, si rifrange in una moltitudine di frammenti.
Anche nel quadro di Bacon l'immagine era a pezzi, ma qui c'è un elemento in più: è lo stesso specchio che è distrutto. Forse qui l'autore vuole andare oltre la rappresentazione della condizione esistenziale dell'uomo contemporaneo, che non riesce più a trovare un significato unitario di se stesso. Qui forse il pittore vuole dirci anche qualcosa a proposito della capacità della pittura, e dell'arte in genere, di riuscire a dare una rappresentazione più o meno unitaria e coerente della realtà umana.

Che cos'è infatti lo specchio per i pittori? Leonardo, nel suo "Trattato della pittura" raccomandava ai pittori di utilizzare lo specchio come un maestro, perché "sulla sua superficie le cose hanno similitudine con la pittura in molte
parti”. L'arte insomma, come lo specchio, è in grado di catturare la realtà. Ma qui lo specchio è rotto. Se consideriamo la capacità riflettente dello specchio come metafora della pittura, forse in questo quadro il messaggio che possiamo ricavarne è che neanche l'arte è in grado di afferrare il senso ultimo della condizione umana. Può al massimo darne un'immagine provvisoria, frammentata e precaria, rappresentare l'atto dell'andare in pezzi oppure fornire ritratti e figure "probabili" ("Figura probabile" e "Ritratto probabile" sono tra le opere più note di Ceretti).

Alla metà degli anni '50, Mino Ceretti fu tra i fondatori di un movimento artistico denominato Realismo Esistenziale, nato all'ombra delle lezioni di Aldo Carpi all'Accademia milanese di Brera e gravitante intorno al mitico Bar Giamaica. Il Realismo Esistenziale prendeva le distanze da una parte dal Realismo Sociale ideologizzato e dall'altra dalle istanze informali dell'astrattismo, accogliendo l'influenza filosofica dell'esistenzialismo di Sartre e Camus e quella artistica dell'opera di Bacon. Era una generazione che aveva vissuto gli orrori e le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale, di cui serbava ancora un vivo il ricordo e che in quegli anni risentiva della crisi delle ideologie politiche e della disillusione ad essa seguita. Il Realismo Esistenziale, partendo dalla figura, cercava di rappresentare un'umanità smarrita, la sua solitudine, la sua disperazione, l'incomunicabilità che attraversa le città, l'impossibilità di andare oltre l' "esserci" fenomenico e di afferrare il senso unitario dell'esistenza.
Lo stile di Ceretti, in particolare, fatto di un linguaggio scarno e di toni drammatici, privo di distrazioni cromatiche, caratterizzato da piani e oggetti che sembrano lacerarsi, cerca proprio di cogliere la desolazione e la frammentarietà delle figure.
In un saggio del 1976, Emilio Tadini scriveva che nelle opere di Ceretti "si mostrano - prima di tutto - cose che si rompono, che si spaccano. Si mostra l'atto dell'andare in pezzi. (...) Un quadro di Ceretti rappresenta anche, e forse soprattutto, la capacità che è nella pittura e in noi, (...) di guardare questo sfacelo".

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