mercoledì 28 marzo 2018

L'ombra dell'autore. Gli inizi

Claude Monet, L‘ombra di Monet nello stagno delle ninfee, ca. 1905, Parigi, collezione Philippe Piguet.
Lo stagno di Monet

Passiamo ora ad un altro tema che ha a che fare con le ombre: la presenza dell'autore all'interno dell'immagine.
Partiamo dalla considerazione che la pittura contemporanea dedica scarsa attenzione alle ombre. E' invece la fotografia a raccogliere l'interesse per l'aspetto espressivo dell'ombra, e lo farà molto spesso inserendo nella superficie fotografica la proiezione del fotografo medesimo, così riprendendo, modernizzandole, le esperienze pittoriche classiche che facevano uso di particolari forme di autoritratto. A partire dagli inizi dell'arte moderna, infatti, il pittore ha spesso inserito il proprio riflesso all'interno di superfici riflettenti presenti nella scena, facendo dell'automimesi un canone della tradizione pittorica occidentale.

L'ombra, a ben considerare, non è altro che il riflesso di un oggetto su una superficie opaca, rappresentando il grado meno nitido di riflessione.
Vedremo come nel Novecento, l'autoritratto sotto forma di riflesso o di ombra, sarà una pratica ricorrente in fotografia. Uno dei primi conosciuti è senz'altro questo scatto realizzato da Monet nel suo giardino di Giverny, in cui riprende la superficie del famoso stagno di ninfee, oggetto di tanti suoi dipinti.
Nella parte inferiore della fotografia, possiamo distinguere la sagoma del pittore, ormai anziano. Sono quelli gli anni in cui Monet era quasi ossessionato dalla pittura di quelli che egli chiamava, in una lettera, “paesaggi d'acqua e di riflessi", cioè il suo stagno delle ninfee e gli effetti della luce sull'acqua.
E' molto interessante l'osservazione di Stoichita a questo proposito. Egli vede in questi “paesaggi” l'affermazione di una nuova estetica dell'immagine, un'estetica che è “il frutto di un rapporto inedito tra l'osservatore e l’oggetto dell’osservazione, da un lato, e tra la cornice e la rappresentazione, dall’altro. Quelle tele non sono dei paesaggi nel senso proprio del termine, visto che vi mancano sia l’orizzonte che il cielo. La superficie del quadro si confonde con la superficie dell'acqua e l’esterno (un albero, il cielo ecc.) è presente nell’immagine solo nella misura in cui vi è assorbito dallo specchio. Quanto all’osservatore, egli sta non davanti a un paesaggio ma 'si china' sullo specchio dell’acqua trasformandolo in 'quadro'.” (Breve storia dell'ombra, p. 101).
Veniamo ora alla fotografia. Qui lo stagno non funge da superficie riflettente; infatti non ci restituisce il riflesso speculare dell'autore, ma la sua ombra scura e indistinta (fatto probabilmente dovuto alle condizioni di luce o all'opacità dell'acqua). Secondo Stoichita, quest'ombra rappresenta la manifestazione, da parte dell'artista, della propria devozione nei confronti del proprio mondo simbolico. L'arte occidentale si era sviluppata sotto il segno di Narciso e della mimesis, cioè dell'arte come riflesso speculare della realtà. Monet, invece, non iscrive nell'immagine la propria fisionomia riconoscibile, ma la propria sagoma scura, segno di presenza e insieme di evanescenza e, con questo, propone la sostituzione del paradigma occidentale narcisistico della mimesis con l’elogio orientale dell’evanescenza dell’ombra.

Queste le considerazioni di Stoichita. Questa fotografia, però, è molto interessante anche per altre ragioni, che hanno a che fare proprio con l'ombra dell'autore. L'immagine, infatti, in questo caso reca traccia non solo dell'oggetto ripreso, ma anche del soggetto che effettua la ripresa. L'ombra, pertanto, è un elemento della fotografia che racconta qualcosa sulla realizzazione della fotografia medesima. Costituisce, cioè, un elemento metafotografico, tramite il quale una rappresentazione parla di se stessa, sfondando la quarta parete e mostrandoci il “di qua” della scena.
Questo elemento metafotografico ci ricorda una cosa in particolare: la fotografia è enunciata da un corpo che ha preso posizione nel mondo. Il fotografo non è mai un soggetto disincarnato di fronte a un oggetto collocato in uno spazio altro e tenuto a distanza. Il fotografo è essenzialmente un soggetto-corpo collocato in una situazione della quale lui è uno degli elementi.
Ogni fotografia è il risultato di una presa di posizione del corpo nel mondo, non solo del mero atto disincarnato dello scatto, perché, per inquadrare un frammento di mondo, è necessario innanzitutto sentirsi presi nel mondo.
Proprio perché la fotografia nasce da questa situazione “interattiva e globale”, essa non costituisce soltanto una maniera di impossessarsi del mondo, ma anche di lasciare in esso un segno di sé. Il fotografo si riconosce, e si rende riconoscibile, attraverso l'impronta di sé che lascia nella configurazione intera di una fotografia.
Grazie alla presenza dell'ombra dell'autore all'interno della superficie fotografica, l'immagine costituisce più che una traccia duplice, che tiene insieme soggetto e oggetto come facenti parte di un'unica realtà sensomotoria, ma è anche in grado di parlare di se stessa, del processo che l'ha originata; di rivelarsi, cioè, non solo come testo (composto di forma e contenuto) ma anche come pratica, come processo poietico.

Qualche anno dopo lo scatto eseguito da Monet al suo stagno delle ninfee, ecco un'altra fotografia che riprende un'ombra sulla superficie dell'acqua. Questa volta, ad eseguirla, è un fotografo di professione, Alfred Stieglitz. Al contrario dell'altra, però, dove l'ombra costituiva una presenza discreta, posta al margine della superficie dell'immagine, in questo caso le ombre la occupano interamente, assurgendo al ruolo di protagoniste.

Alfred Stieglitz Shadows on the Lake 1916.

Nella fotografia di Monet, l'ombra si limitava a riprodurne il capo, rendendo ambiguo il margine inferiore della foto, mettendo in discussione il suo stesso statuto di confine, in quanto la parzialità dell'ombra presente evocava fortemente la parte mancante, stabilendo un richiamo con l'al di qua, cioè con lo spazio esterno al riquadro del frammento ripreso. Benché la natura dell'ombra indipendente sia comunque quella di fare riferimento all'oggetto fuori campo che la proietta, nel caso della fotografia di Stieglitz, le ombre occupano tutta la superficie dell'immagine, pretendendo quasi lo statuto di soggetto autonomo e compiuto.

L'ombra dell'atto di produzione

Prima ancora della fotografia di Stieglitz, un altro grande fotografo del tempo aveva realizzato uno scatto in cui compare non solo l'ombra del fotografo, ma anche quella della macchina e addirittura del treppiede su cui è posta.


Lewis Wickes Hine, Self-Portrait with Newsboy, New York City, 1908.

Risale al 1908 e presenta uno strillone nelle strade di Indianapolis, ma la caratteristica più interessante è che l'ombra sul marciapiede mostra l'attimo stesso in cui l'immagine viene catturata. Di conseguenza, si tratta di una fotografia che non solo riprende un soggetto, ma l'atto stesso di fotografare quel soggetto.
Tuttavia, già in passato i pittori avevano spesso rappresentato, nei propri quadri, lo stesso processo di rappresentazione (dando vita a quello che Stoichita definisce “scenario di produzione”).
La fotografia offre qualcosa che i pittori fino a quel momento non avevano potuto realizzare: l'impronta (nel senso fisico e causale del termine) dell'atto medesimo che dà origine all'immagine.
Nella fotografia di Hine ci sono tutti gli elementi dell'autoritratto tradizionale ma, in aggiunta, abbiamo il senso del "momento congelato", una cosa che solo la fotografia può ottenere.
Ecco, inoltre, che i confini della fotografia diventano ambigui, perché ritagliano sì uno spazio determinato, ma quest'ultimo contiene al suo interno anche parte di quello esterno, mettendo in scena, tra l'altro, il meccanismo alla base dello scatto. Quest'ultimo punto costituisce un elemento metalinguistico che mina la pretesa autonomia e trasparenza di un'immagine fotografica. Di solito, infatti, le fotografie vengono percepite come realtà chiuse, a se stanti: cioè tutti gli elementi presenti sulla scena creano una storia compiuta, autosufficiente, che dà allo spettatore l'illusione di realtà.
Se la fotografia mostra il farsi di se stessa e il suo artefice, è ovvio che quella chiusura viene spezzata perché allo spettatore viene a mancare l'illusione di star guardando una scena della vita reale, una registrazione distaccata e impersonale, un documento oggettivo, ma gli si rende evidente l'artificiosità (in quanto farsi) della rappresentazione.



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